1992
quando l’Italia tremò
Il 30 gennaio del 1992 la I sezione penale della Corte di Cassazione rende definitiva la sentenza sul Maxi Processo – come venne definito dai giornali - contro la Mafia siciliana, iniziato 6 anni prima a Palermo, che vede alla sbarra più di 400 imputati. La sentenza è un colpo durissimo per i Corleonesi: 19 ergastoli, decine di condanne e sequestri per miliardi di lire.
L’Italia sembra pronta a porre fine a una vergogna nazionale: Cosa Nostra. Durante il Maxi Processo emergono due giudici istruttori dei quali avremmo sentito parlare a lungo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La sentenza è un colpo durissimo per i Corleonesi: 19 ergastoli da scontare nelle carceri di massima sicurezza, decine di condanne e sequestri per miliardi di lire. Il 30 gennaio 1992 lo Stato sembra dire che nessuno è più intoccabile. La politica corrotta non sembra più in grado di “ammazzare” le sentenze in Cassazione.
Sembra il giorno della liberazione. E invece è il giorno in cui Cosa Nostra - guidata da Salvatore “Totò” Riina e Bernardo Provenzano, due contadini latitanti da anni - decide che è arrivato il momento di attaccare con violenza il cuore dello Stato.
Maastricht, Paesi Bassi. La mattina del 7 febbraio del 1992 viene firmato il Trattato dell’Unione Europea. Entrerà in vigore il primo novembre dell’anno successivo, e definisce i nuovi pilastri della nuova Europa. Il trattato istituisce l’Unione europea al posto della Cee e punta a creare un'Unione economica e monetaria in tre tappe con l’introduzione di una moneta unica: l’Euro.
Il primo pilastro della Comunità europea fissa i settori in cui gli Stati membri esercitano congiuntamente la propria sovranità attraverso le istituzioni comunitarie.
Si applica il cosiddetto “metodo comunitario”, ossia la proposta della Commissione europea, l’adozione da parte del Consiglio e del Parlamento europeo e il controllo del rispetto del diritto comunitario da parte della Corte di giustizia.
Il secondo pilastro instaura la Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) e consente agli Stati membri di avviare azioni comuni in materia di politica estera.
Il terzo pilastro riguarda la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni. L’Unione deve svolgere un’azione congiunta per offrire ai cittadini un livello elevato di protezione in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Anche in questo caso il processo decisionale è intergovernativo.
Con lo stesso trattato viene potenziato il ruolo del Parlamento con la procedura di codecisione che gli consente di adottare una serie di atti insieme al Consiglio. Il mandato della Commissione viene esteso da 4 a 5 anni. Viene potenziato il ricorso al voto a maggioranza qualificata al Consiglio. Viene creato il Comitato delle Regioni a carattere consultivo.
È il pomeriggio del 17 febbraio del 1992 quando, a Milano, Mario Chiesa - esponente del Partito socialista milanese e presidente del Pio Albergo Trivulzio – sta intascando una bustarella da un imprenditore monzese, che risponde al nome di Luca Magni. I carabinieri piombano nel suo ufficio e lo colgono in flagranza di reato. È l’inizio di un’inchiesta che scuoterà l’Italia: “Mani Pulite”.
Quel pomeriggio, a Milano, piove fitto. È un lunedì di pieno inverno, e in città l’attenzione è rivolta al Milan di Fabio Capello e degli olandesi. I rossoneri vinceranno lo Scudetto, quell’anno. Ma quel giorno succede qualcosa che cambierà la storia d’Italia.
Alle 17:30 è già buio. Nel suo ufficio di via Marostica 8, nella zona ovest della città, un ingegnere di nome Mario Chiesa - esponente del Partito socialista milanese e presidente del Pio Albergo Trivulzio – sta intascando una bustarella dall’imprenditore monzese Luca Magni. Sette milioni di lire, in contanti, come prima tranche di una tangente da quattordici milioni. È il 10% di un appalto da 140 milioni di lire.
Ma la seconda tranche, l’ingegnere Chiesa, non la intascherà mai. Perché Magni ha denunciato tutto, e i carabinieri piombano nell’ufficio di via Marostica proprio mentre Chiesa intasca i soldi.
Sembra un arresto qualunque, una storia di corruzione come altre. E invece è l’inizio di un’inchiesta che scuoterà l’Italia: “Mani Pulite”.
Per Bettino Craxi, leader del Partito Socialista, Mario Chiesa è solo un «mariuolo isolato». Craxi prova a ridurre la portata dell’arresto, a nascondere la polvere sotto al tappeto. Ma l’ingegnere milanese è tutt’altro che un caso isolato. È invece parte di un sistema strutturato e bel oleato, che lo stesso Chiesa racconterà agli inquirenti a partire dall’interrogatorio fiume del 23 marzo successivo.
Il sistema di corruzione, in Italia, è pervasivo. Le tangenti si annidano dietro ogni appalto pubblico. Politici e funzionari pubblici si arricchiscono con le bustarelle, e – soprattutto – la politica si autofinanzia con le tangenti.
L’inchiesta, condotta da Antonio Di Pietro e dal pool di Mani Pulite di Milano, individuerà regole precise di spartizione dei fondi illeciti. Nel giro di due anni saranno indagate 4.520 persone e coinvolti i vertici del mondo imprenditoriale e politico del momento.
La Democrazia cristiana e il Partito socialista verranno spazzati via. Bettino Craxi, interrogato da Antonio Di Pietro, nel corso del processo per la maxi tangente Enimont dirà:
«Io sono sempre stato al corrente della natura non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito».
Il 12 marzo del 1992, la Mafia risponde alla sentenza del Maxi Processo e uccide Salvo Lima, il politico di maggior spessore dell’intera Sicilia. Democristiano di ferro e braccio destro del Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. Lima viene freddato sul Lungomare di Mondello, a Palermo. Due killer a bordo di una motocicletta gli sparano a bruciapelo.
Nel primo capitolo abbiamo parlato della sentenza della Corte di Cassazione sul Maxi Processo contro Cosa Nostra. E di come quel verdetto decreta l’inizio di una nuova scia di sangue. I corleonesi aspettano poche settimane prima di agire. Poi lo fanno, e danno un segnale pesantissimo.
Il primo a cadere, il 12 marzo del 1992, è Salvo Lima. È il politico di maggior spessore dell’intera Sicilia. Democristiano di ferro e braccio destro del Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, a cui garantisce valanghe di voti in Sicilia.
A ordinare l’esecuzione sono Totò Riina e Bernardo Provenzano. L’intento è chiaro, e Giovanni Falcone – il magistrato che a Palermo sta inchiodando Cosa Nostra – lo capisce subito: la Mafia aveva avuto rassicurazioni politiche sulla sentenza di Cassazione, che invece era finita in un bagno di condanne ed ergastoli. E Lima è il segnale da dare al sistema: è esplosa una nuova guerra, servono nuovi referenti politici.
Dell’omicidio Lima, c’è un altro particolare che merita di essere raccontato. E riguarda il suo funerale. Benché fosse un politico di un certo rilievo, solo Giulio Andreotti decide di prendere parte alle sue esequie. L’imbarazzo nella politica romana è evidente. Tira un’aria pessima.
Alle elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992, il clima di sfiducia verso la politica – alimentato dalle inchieste del Tribunale di Milano nell’operazione Mani Pulite – è a livelli altissimi. E alle urne cresce l’astensionismo. La Democrazia Cristiana perde molti voti. A Milano, invece, si fa spazio un movimento autonomista esploso sul finire degli anni Ottanta: la Lega Nord di Umberto Bossi.
Le elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992 si svolgono in un clima surreale. L’Italia è scossa da Tangentopoli. Gli scenari internazionali hanno cambiato il mondo per sempre: a Berlino è caduto il Muro, l’Unione Sovietica è stata disgregata. La contrapposizione ideologica che ha caratterizzato le relazioni internazionali dal Secondo dopo guerra, di fatto viene archiviata.
Il clima di sfiducia politica è forte e lo si vede nella quota di astenuti al voto. L’affluenza al voto per la Camera dei deputati sarà all’87,35%, il dato più basso della storia della Repubblica che segnerà l’inizio di una discesa pressoché costante (nel 2018 la percentuale è stata 72,93%).
Tra i partiti, la Democrazia Cristiana perde molti voti: cala di 5 punti rispetto al 1987 al suo minimo storico.
Anche i socialisti perdono voti, ma non c’è l’effetto valanga legato all’arresto di Chiesa: il Psi prenderà il 13,6%, in calo dello 0,6% rispetto al 1987.
A Milano, invece, si fa spazio un movimento autonomista: è la Lega Nord di Umberto Bossi, che in città diventa primo partito. Bossi ottiene un risultato storico, con 55 deputati (8,65%) e 25 senatori (8,20%), diventando il quarto partito più votato d’Italia.
Il 25 aprile Francesco Cossiga annuncia le sue dimissioni da Presidente della Repubblica. A spingere Cossiga verso questa scelta è il risultato uscito dalle urne due settimane prima. Il “pentapartito”, di cui fa parte, ha perso milioni di consensi. Per molti, le dimissioni di Cossiga segnano l’inizio della fine della Prima Repubblica.
«Ho preso la decisione di dimettermi da Presidente della Repubblica, spero che tutti lo consideriate un gesto onesto, di servizio alla Repubblica».
Sono le 18.38 del 25 aprile del 1992 quando Francesco Cossiga annuncia le sue dimissioni da Presidente della Repubblica (le rassegnerà ufficialmente 3 giorni dopo). A spingere Cossiga verso questa scelta è il risultato uscito dalle urne due settimane prima. Il “pentapartito”, di cui fa parte, ha perso milioni di consensi.
Il pentapartito era una coalizione di governo durata dal 1981 al 1991 e composta da Democrazia Cristiana, Partito socialista, Partito repubblicano, Partito liberale e socialdemocratico.
Trovare una maggioranza stabile all’interno del Parlamento è un’impresa. Per molti, le dimissioni di Cossiga segnano l’inizio della fine della Prima Repubblica.
Alle 17:58 un tratto dell’autostrada A29, nei pressi di Capaci (Pa), viene disintegrato dall’esplosione di 1000 kg di tritolo sistemati all'interno di fustini. In quel momento stavano transitando le auto del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta. Perdono la vita, oltre al magistrato, la moglie e 3 agenti: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.
Il 23 maggio del 1992, in Italia, si discute di politica e ciclismo. Le elezioni presidenziali, per dare al Paese il successore di Cossiga, si trascinano ormai da dieci giorni. La spaccatura parlamentare sta partorendo caos e poca sintesi. Si fa il nome di Giulio Adreotti, ma le recenti storie di Cosa Nostra – con l’omicidio del suo amico Salvo Lima – creano un certo imbarazzo attorno al nome del leader democristiano.
Per le strade del giro d’Italia, invece, si fa il tifo per Claudio Chiappucci da Uboldo (Va), che prova a contendere la maglia rosa a un ciclista formidabile: lo spagnolo Miguel Indurain.
Mancano pochi minuti alle 17 quando all’aeroporto di Punta Raisi, pochi chilometri da Palermo, atterra un jet del Sisde (un aereo dei servizi segreti) con a bordo il magistrato Giovanni Falcone.
Proviene da Roma, come ogni weekend. Falcone ci tiene a trascorrere il fine settimana a Palermo. Ad attenderlo ci sono tre Fiat Croma blindate: una bianca, una marrone e una azzurra. Il magistrato si mette alla guida dell’auto bianca. Al suo fianco la moglie Francesca Morvillo. L’autista, Giuseppe Costanza, occupa il sedile posteriore.
La Croma di colore marrone è invece guidata dall’agente di Polizia, Vito Schifani. Al suo fianco il collega Antonio Montinaro, e dietro Rocco Dicillo. La Fiat Croma azzurra, infine, ospita Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.
Lasciando l’aeroporto di Punta Raisi, le auto si mettono in fila: l’auto con a bordo Giovanni Falcone sta nel mezzo, preceduta da quella guidata da Vito Schifani. Imboccano l’autostrada A29, in direzione Palermo.
In quello stesso momento, un mafioso di Altofonte di nome, Gioacchino La Barbera, si mette al seguito delle tre Fiat Croma e rimane in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè, due esponenti di spicco di Cosa Nostra, che osservano l’autostrada da una collina.
Sono le 17:58 quando la telefonata fra La Barbera e Brusca si interrompe. Passano pochi secondi e un tratto dell’autostrada A29 viene disintegrato dall’esplosione 1000 kg di tritolo sistemati all'interno di fustini, in un cunicolo di drenaggio sotto l'autostrada. Ad azionare il telecomando è Giovanni Brusca.
L’esplosione colpisce in pieno la Fiat Croma marrone con a bordo Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, sbalzandola a una decina di metri di distanza, su un giardino di ulivi che costeggia l’autostrada. I tre muoiono sul colpo.
L’auto con a bordo Falcone viene colpita di striscio, ma finisce contro il cumulo di detriti sollevati dall’esplosione. La terza Fiat Croma, quella azzurra, è la meno colpita, e questo salverà la vita ai tre occupanti.
I soccorsi scattano nel giro di pochi minuti. Giovanni Falcone è ancora vivo e viene trasportato all'ospedale civico di Palermo. Ma le sue condizioni sono disperate. Al suo capezzale arriva immediatamente il giudice amico, Paolo Borsellino. Falcone non riprende più conoscenza, e il suo cuore cessa di battere alle 19:05, dopo numerosi tentativi di rianimazione. Muore fra le braccia di Borsellino.
Tre ore più tardi, alle 22:00, muore anche Francesca Morvillo, mentre i medici la sottopongono a un intervento disperato per strapparla alla morte. Giuseppe Costanza, invece, rimane miracolosamente vivo.
Per l’Italia intera, quel giorno iniziato con le speranze per Claudio Chiappucci al Giro, si chiude in modo funesto con le immagini della strage di Capaci che fanno il giro del mondo.
Il Paese è ancora sconvolto per l’attentato a Giovanni Falcone, quando il 25 maggio, Oscar Luigi Scalfaro viene eletto Presidente della Repubblica. Lo scrutinio determinante è il sedicesimo. Scalfaro diventa Presidente con 672 voti su 1002 votanti. Al momento dell'elezione Scalfaro ha 74 anni. Traghetterà il Paese verso la Seconda Repubblica.
È proprio la Strage di Capaci a sbloccare la situazione al Quirinale. I partiti – alle prese con lo scontro interno alla DC e all’impasse sul nome di Arnaldo Forlani – sono costretti dagli eventi a trovare una sintesi, scegliendo fra i presidenti della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, e del Senato, Giovanni Spadolini (quest’ultimo, tra l’altro, capo supplente dello Stato dopo le dimissioni di Cossiga).
La spunta Scalfaro, che circa un mese dopo (il 28 giugno) conferisce la carica di Presidente del Consiglio a Giuliano Amato.
Nella notte fra il 9 e il 10 luglio del 1992 il Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, compie un’azione senza precedenti. Con il decreto legge “Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica” dà il via a un prelievo forzoso pari al 6 per mille, calcolato sull'ammontare dei depositi bancari, libretti postali, conti correnti, certificati di deposito, buoni fruttiferi, in essere alla data del 9 luglio.
Per l’Italia è un anno drammatico e difficile. Le ripercussioni dell’instabilità politica, delle inchieste e delle stragi, si fanno sentire anche sul fronte finanziario. Il Paese rischia la bancarotta. Così nella notte fra il 9 e il 10 luglio del 1992, il Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, opta per il prelievo forzoso.
Il secondo intervento è l’Isi (imposta straordinaria immobiliare), del 2 per mille, sui valori catastali di fabbricati, che di seguito viene innalzata al 3 per mille per i fabbricati diversi dall'abitazione principale.
Nello stesso anno vengono introdotti dei prelievi su alcuni beni di lusso, come imbarcazioni, velivoli, automobili di elevata cilindrata e riserve di caccia e pesca, e sul patrimonio netto di ditte individuali, società ed enti commerciali e non, con aliquota pari al 7,5 per mille.
Alle 16:58, in via D’Amelio a Palermo, esplodono 90 chilogrammi di plastico Semtex, posizionati a bordo di una Fiat 126. L’esplosione uccide il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Sopravvive solo Antonino Vullo, impegnato a parcheggiare una delle auto poco distante.
Dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, il piano stragista di Cosa Nostra non si ferma. Ci sono altri obiettivi da centrare, nell’agenda sanguinaria di Totò Riina. Uno di questi, il principale, è il giudice che proprio insieme a Giovanni Falcone ha fatto più male a Cosa Nostra negli ultimi anni: Paolo Borsellino.
Il 19 luglio del 1992, a Palermo, è una domenica di caldo torrido. Anche il traffico è pigro. Il procuratore aggiunto Paolo Borsellino, pranza a Villagrazia con la moglie Agnese e i suoi figli Manfredi e Lucia. Nel pomeriggio, invece, si sposta.
Al civico numero 21 abitano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino, madre e sorella di Paolo.
Mancano pochi minuti alle 17 quando il giudice, accompagnato dalla sua scorta, imbuca via D’Amelio, per far visita alle sue congiunte.
C’è un’aria pesantissima, a Palermo, dopo l’uccisione di Giovanni Falcone. Borsellino è cosciente di essere l’obiettivo di Cosa Nostra, e ogni suo spostamento è vissuto col fiato sospeso.
Alle 16:58, quando Borsellino e gli agenti di scorta scendono dalle auto, un’esplosione travolge la strada, sventrando auto, crepando i palazzi e riducendo le persone in brandelli. Circa 90 chilogrammi di esplosivo plastico Semtex, posizionati a bordo di una Fiat 126 rubata e fatti brillare a distanza, uccidono Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta.
Via D’Amelio è un inferno. Cittadini, reporter e forze dell’ordine si recano immediatamente sul posto, la scena è da film apocalittico. Il magistrato Antonino Caponnetto, intercettato dalle telecamere Rai, non riesce a rispondere alle domande del giornalista, al quale stringe le mani e dice soltanto: «È finito tutto!».
Il 2 settembre del 1992 si toglie la vita il deputato socialista Sergio Moroni, esponente di spicco del Partito Socialista. Nei mesi precedenti aveva ricevuto due avvisi di garanzia all’interno dell’inchiesta Mani Pulite. Lascia alcune lettere indirizzate ai suoi colleghi nelle quali scrive di aver agito per conto del suo partito.
Mentre Cosa Nostra ha dichiarato guerra allo Stato, con l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Milano il pool di “Mani pulite” continua nella sua inchiesta che scoperchia anni di corruzione, tangenti e bustarelle. E proprio per le accuse mosse nei suoi confronti, il 2 settembre del 1992, si toglie la vita il deputato socialista Sergio Moroni.
Moroni è un esponente di Spicco del Partito Socialista, e fa parte della direzione nazionale. Ma l’estate del 1992 riceve due avvisi di garanzia per vicende legate a fatti di mazzette sulla discarica di Pontirolo e l’ospedale di Lecco.
Un peso evidentemente troppo grande da sopportare, per Moroni, che il 2 settembre si toglie la vita sparandosi in bocca, nello scantinato di casa.
Dopo la sua morte, i carabinieri trovano alcune lettere scritte dallo stesso deputato indirizzate ai suoi colleghi. Una di queste ha come destinatario Giorgio Napolitano, allora Presidente della Camera dei Deputati.
Moroni spiega di aver agito per conto del suo partito, e di fatto il suo gesto alza ulteriormente il velo sul sistema di finanziamento ai partiti in quegli anni. La lettera viene pubblicata dal quotidiano “Avanti”. Ed è la seguente:
Egregio Signor Preside
nte, ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita. È indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l’espressione. Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle “decimazioni” in uso presso alcuni eserciti, e per alcuni versi mi pare di ritrovarvi dei collegamenti. Né mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la “pulizia”. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste regole.
Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere, ancora prima sul piano morale che su quello legale. Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto d’informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie. A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergono a censori. Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da “pogrom” nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma che pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno potuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizzare positivamente le proprie capacità e competenze. Io ho iniziato giovanissimo, a solo 17 anni, la mia militanza politica nel Psi. Ricordo ancora con passione tante battaglie politiche e ideali, ma ho commesso un errore accettando il “sistema”, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questo era prassi comune, né mi è mai accaduto di chiedere e tanto meno pretendere. Mai e poi mai ho pattuito tangenti, né ho operato direttamente o indirettamente perché procedure amministrative seguissero percorsi impropri e scorretti, che risultassero in contraddizione con l'interesse collettivo. Eppure oggi vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo "tangenti", accomunato nella definizione di “ladro” oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto. Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna.
Con stima.
Sergio Moroni
Il mercoledì nero. Lo hanno ribattezzato così quel 16 settembre 1992. In un Paese sfibrato dalle stragi di Mafia e da Tangentopoli, il terremoto finanziario è una conseguenza piuttosto logica. La Lira esce dallo Sme (il Sistema monetario europeo, che legava le valute partecipanti a una griglia di cambio predeterminata) e il rendimento dei titoli di stato schizza all'insù.
Per capire il perché della crisi bisogna tornare indietro di tre mesi: il 2 giugno i cittadini danesi si pronunciano, seppur di misura, contro la ratifica del trattato di Maastricht.
«Una scintilla apparentemente trascurabile quale un referendum in uno dei paesi più piccoli d'Europa, fa divampare un incendio senza precedenti nel cantiere della costruzione economica e monetaria europea»: scrive Fabrizio Saccomanni, ex direttore generale della Banca d'Italia, nel libro collettaneo "Il cammino della lira da Bretton Woods all'euro".
«I mercati sono rapidissimi a realizzare le implicazioni del referendum e un’ondata speculativa senza precedenti investe anzitutto le valute Sme le cui economie presentano maggiori criticità sul fronte dei fattori fondamentali, rendendo le parità poco credibili: la lira è una delle vittime più colpite».
Alle 13:04 l’agenzia Ansa batte una notizia destinata a stravolgere per sempre la politica italiana: i Pm di “Mani Pulite” indagano Bettino Craxi. L’accusa per Craxi è di concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Un faldone di 18 pagine in cui i pm contestano al leader socialista 41 episodi illeciti, e bustarelle per 36 miliardi di lire.
Il testo dell’agenzia è sibilino, abbastanza prudente, in attesa di conferme:
«Secondo quanto si è appreso a Palazzo di giustizia di Milano, una informazione di garanzia è stata emessa dalla procura della Repubblica milanese per Bettino Craxi. I magistrati che indagano sulle tangenti avrebbero deciso ieri, nel corso di un duplice vertice col procuratore Francesco Saverio Borrelli, il provvedimento inoltrato al segretario del Psi attraverso un ufficiale dei carabinieri. In procura, nessuno per il momento conferma la notizia».
L’accusa per Craxi è di concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti.
Il 12 gennaio dell'anno successivo, viene presentata una prima richiesta di autorizzazione a procedere al Parlamento. Passano poche settimane e a febbraio del 1993 Craxi si dimette dalla segreteria nazionale del partito socialista. Nel Paese, intanto, il sentimento anti-craxiano è esploso.
Non di rado i cittadini che lo incontrano per le strade di Roma gli urlano “ladro”, mimandogli il gesto delle manette. Gli scandali giudiziari, per Craxi, saranno sempre più fitti. E lui deciderà di non affrontare i processi fuggendo nella sua villa di Hammamet, in Tunisia, dove morirà il 19 gennaio del 2000.