Gli anni ci lasciano, ma il 1989 è ancora con me. O forse, più semplicemente, continuo a girargli intorno perché la caduta del Muro di Berlino mi ha regalato la lunga e splendida illusione che la notte del 9 novembre e l’alba di un mondo nuovo sarebbero state conquiste irreversibili.
Dieci anni trascorsi a vivere e lavorare per il Sole 24 Ore tra la Polonia postcomunista, gli altri Paesi dell’Europa Centro-orientale, e una Germania in crisi economica e in affanno da riunificazione, sono stati un’esperienza umana e professionale indimenticabile.
E hanno rafforzato - con l’entusiasmo dei debutti, di un’età giovane e dell’inesperienza che tiene il cinismo a distanza - quella grande illusione. Polonia, l’avanguardia della rivoluzione Bisognava raccontare la nascita della democrazia e dell’economia di mercato in Paesi che poco tempo prima erano governati da dittatori ottusi o da satrapi aggrappati al potere fino all’ultimo istante, più che a un’ideologia ormai logora e snaturata, e perciò incapaci di percepire l’imminenza della loro fine.
Varsavia e Berlino sono le città che più amo in Europa. La prima non è bella, ma ti avvolge; la seconda ti deve piacere e se ti piace te ne innamori. Entrambe hanno esercitato ed esercitano un fascino unico, che ho scoperto essere, negli anni, il fascino della sofferenza, della distruzione subita (la Polonia) e di quella ricevuta dopo averla inflitta (la Germania) e infine della comune capacità di rialzarsi.
È un’emozione intensa, ma difficile da descrivere perché è una storia di dolore e di riscatto quella che raccontano, senza pudore e complessi, le strade e gli edifici di queste città. La mia casa di Varsavia, ad esempio, nel quartiere di Saska Kepa, al di là della Vistola dove l’Armata Rossa aspettava che i tedeschi distruggessero la capitale e annientassero la classe dirigente del Paese, era sopravvissuta alla guerra. Una delle poche.
Parte del distretto storico di Praga, Saska Kepa fu risparmiato dai bombardamenti conservando molte ville di architettura modernista e case in stile inglese con piccoli giardini, come quella in cui andai a vivere assieme alla mia famiglia.
La casa bianca e i fori dei proiettili Intonacata in calce bianca, era stata costruita nel 1928 con una strana facciata neoclassica. L’agente immobiliare, un ometto simpatico dalla parlantina inarrestabile e dal cognome impronunciabile composto solo da consonanti – Trzpyl, Janusz Trzpyl - non voleva nemmeno mostrarmela.
Era «strana», diceva, e continuava a scusarsi per un sopralluogo che riteneva sarebbe stato una perdita di tempo. Fu invece amore a prima vista con la casa bianca dai finestroni alti come quelli di un loft e la grande stufa di maiolica che separava la zona pranzo dal salotto.
Il proprietario, un architetto che viveva e lavorava a Stoccolma, usò il francese, pur parlando un ottimo inglese, per descrivere la vera qualità dell’abitazione: «Elle a l’âme», ha un’anima, disse, e aveva ragione.
Era una casa semi indipendente, libera da un lato e addossata a un gruppo di edifici bassi e anonimi dall’altro. Quello a fianco era ancora segnato, nella parte alta della facciata, dai fori dei proiettili, tracce di qualche raro scambio di artiglieria tra russi e tedeschi al di là del fiume.
Gli stessi buchi, come ricami di guerra, li ritrovai a Berlino, sui muri dei palazzi guglielmini in via di restauro nel quartiere di Prenzlauer Berg. Sono tornato in quella casa con la mia famiglia, 25 anni dopo averla lasciata. Un viaggio a sorpresa da Berlino, in treno, perché le mie figlie erano troppo piccole per ricordarsi Varsavia a parte Giulia, la più grande, che a tre anni si era impressa nella memoria la sagoma imponente del Palazzo della Cultura e un fiume di nome Bistola che poi era la Vistola.
L’intenzione era quella di un banale selfie della serie “True Ostalgie” davanti alla casa bianca di via Kryniczna che ci aveva ospitato per quattro anni riparandoci, tra mille spifferi per via delle ampie finestre, da temperature che a volte scendevano a 15-20 gradi sottozero.
La fortuna, o forse l’anima della casa che voleva riaprirci la sua porta, ci ha fatto incontrare il proprietario, che stava rientrando esattamente in quel momento. Mi ha riconosciuto e ci ha invitato a entrare per un aperitivo.
Abbiamo trascorso un paio d’ore a discutere di quanto stava accadendo in Polonia dopo l’avvento al potere del partito di Jaroslaw Kaczynski, Diritto & Giustizia (PiS): «Questa casa ha ospitato il presidente polacco, ma non quello attuale», ha tenuto a precisare prendendo subito le distanze da Andrzej Duda, dello stesso partito di Kaczynski: «Qui si è seduto e ha cenato Bronislaw Komorowski», ha aggiunto, riferendosi al politico liberale di Piattaforma Civica che fu capo di Stato della Polonia dal 2010 al 2015.
«Un’altra caratura, un altro pensiero, un altro mondo, un’altra Polonia, Paese che oggi quasi non riconosco e nel quale faccio fatica a riconoscermi», ha concluso con un sorriso amaro.
L’anno che ha cambiato l’EuropaLa guerra fredda finì grazie a una serie di eventi che hanno attraversato Europa centrale e orientale nel 1989. La rivoluzione fu possibile da nuovo spirito di apertura della Russia guidata da Mikhail Gorbaciov
6 aprileLa prima tappa è in Polonia. I negoziati della Tavola Rotonda tra il regime comunista e l’opposizione di Solidarnosc si concludono dopo 2 mesi. I sindacati vengono legalizzati, Solidarnosc diventa organizzazione politica riconosciuta e saranno organizzate libere elezioni
2 maggioL’Ungheria apre parzialmente la sua frontiera con l’Austria. È la prima breccia nella cortina di ferro
24 agostoCon il trionfo di Solidarnosc alle prime elezioni semilibere in Polonia, Tadeusz Mazowiecki diventa il primo capo di governo non comunista a guidare uno Stato dell’Europa dell’Est
Agosto-SettembreDecine di migliaia di tedeschi dell’Est in vacanza in Ungheria passano a Ovest
6-7 ottobreVisita di Mikhail Gorbaciov a Berlino Est in occasione del 40esimo anniversario della Repubblica democratica tedesca. Chiede al regime di Honecker di rinunciare all’intervento armato per reprimere le manifestazioni di protesta
7 ottobreIl partito comunista ungherese abbandona qualsiasi riferimento alla dottrina comunista e instaura un sistema multipartitico
30 ottobre-4 novembreUn milione e quattrocentomila cittadini della Germania Est partecipano alle manifestazioni contro il regime. Epicentro della protesta è Lipsia, con i canti, le marce e le preghiere del lunedì che partono sempre dalla chiesa di San Nicola. Il 9 ottobre, nella città della Sassonia, la manifestazione più spettacolare, con 70mila partecipanti
9 novembreAlle 18 e 57 Guenther Schabowski, membro del Politburo della Sed, il partito comunista della Germania Est, annuncia durante una conferenza stampa trasmessa in diretta dalla televisione: “I viaggi dei cittadini all’estero saranno autorizzati senza giustificativi”. Alla domanda di un giornalista che gli chiede da quando questa misura entrerà in vigore, risponde, sfogliando tra i suoi appunti: “Per quello che ne so, anche subito”
9 novembreMigliaia di berlinesi, da Ovest e da Est, si recano verso il Muro, lo scavalcano e lo prendono a colpi di piccone.
25 dicembreEsecuzione, dopo processo sommario, della coppia Nicolae ed Elena Ceausescu. Quattro giorni prima i dittatori della Romania, parlando alla folla erano stati fischiati e costretti alla fuga. È l’unico episodio sanguinoso, frutto di un golpe interno orchestrato dalla Securitate, di una grande rivoluzione pacifica
29 dicembreIl dissidente Vaclav Havel, drammaturgo e poeta, viene eletto presidente della Repubblica in Cecoslovacchia, ultima tappa della “rivoluzione di velluto”: un mese e mezzo di manifestazioni di piazza anti-regime che il Pc cecoslovacco, fino ad allora uno dei più duri e repressivi dell’Est, non riuscì a contenere.
Come ai tempi di Solidarnosc, ma contro il populismo Come altri amici, che abitavano e abitano nello stesso quartiere, quando l’occasione si presenta torna in piazza, stavolta per difendere una visione del mondo più coerente con le conquiste del 1989.
Fa parte di una società civile, numerosa e importante anche se ora minoritaria, che aderisce al Kod, il Comitato di difesa della democrazia, versione borghese del mitico Kor, il Comitato di difesa dei lavoratori che nacque negli anni 70 da un’alleanza tra intellettuali e sindacalisti dando poi vita al nucleo originario di Solidarnosc.
La Polonia di oggi sappiamo quanto e come si è allontanata da alcuni valori fondamentali dell’Unione europea minando lo stato di diritto con una riforma giudiziaria che ha messo la magistratura sotto il controllo della politica. Sappiamo quanto il governo populista, guidato dietro le quinte da Kaczynski, e appena riconfermato al potere con una solidissima maggioranza, eserciti un controllo pervasivo dei media, pubblici e non.
E conosciamo la chiusura netta nei confronti dei migranti arrivati in Europa dalle rotte balcaniche e del Mediterraneo e a qualsiasi ipotesi di ricollocamento sul territorio nazionale. Più o meno la stessa chiusura, in nome delle radici cristiane dell'Europa e di un’identità nazionale che non vuole assimilare né essere assimilata, dell’Ungheria di Viktor Orban, con il quale Kaczynski condivide pienamente l’idea-ossimoro di una «democrazia illiberale».
Si poteva prevedere tutto questo negli anni immediatamente successivi alla caduta del Muro e alla fine dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est? Si potevano nutrire dubbi sulla tenuta di quelle giovani e fragili democrazie, di quelle economie che in molti casi - di sicuro in Polonia e Ungheria - avevano abbracciato spesso con zelo i princìpi del libero mercato? La fragilità era insita nelle istituzioni appena create, soprattutto l’impalcatura dello Stato di diritto. Ciò era chiaro fin dall’inizio in Polonia, in Ungheria e nella Cecoslovacchia, che infatti si sarebbe presto scissa attraverso un processo pacifico e consensuale nel 1992-1993.
Così come era fragile la società, presto divisa tra i grandi beneficiari della liberalizzazione economica e i grandi perdenti.
Il sondaggioPercentuale di persone per le quali i cambiamenti del 1989-1991 hanno avuto un’influenza positiva o molto positiva sui rispettivi standard di vita. A confronto la rilevazione del 1991 con quella del 2019, che evidenziano notevoli differenze tra i Paesi. Fonte: Pew Research
Vincitori e vinti della transizione Da un lato c’erano i giovani con grado di istruzione elevata, ma anche dirigenti ex comunisti e diverse forme di oligarchia imprenditoriale, sempre legata ai vecchi regimi, che avevano saputo riciclarsi e di conseguenza arricchirsi. Dall’altro schiere di pensionati il cui potere d’acquisto era improvvisamente crollato di fronte ai prezzi non più sussidiati, di operai dei kombinat chiusi o privatizzati, trasformati in un esercito di disoccupati che il mercato del lavoro non avrebbe mai potuto riassorbire.
La memoria dell’olocausto Il tunnel della metropolitana che porta al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, nel quartiere Mitte di Berlino (foto di Attilio Geroni)
La globalizzazione in questa parte d’Europa aveva un nome particolare: transizione, a indicare un passaggio inedito nella storia, dall’economia pianificata al libero mercato. Si era sempre saputo che oltre alla ricchezza, avrebbe creato squilibri, diseguaglianze, retrocessioni sociali, delusione e infine rabbia.
Non si è mai saputo però, in quella fase iniziale, come affrontarne gli effetti negativi, ritenendo quasi una fatalità l’esistenza di una componente fisiologica di perdenti, senza un’adeguata rete di protezione sociale.
La Polonia nell’agosto 1989, due mesi dopo le prime elezioni libere che videro la vittoria di Solidarnosc e poco prima che cadesse il Muro di Berlino, decise con il piano del ministro delle Finanze Leszek Balcerowicz di aderire quasi da un giorno all’altro all’economia di mercato. Liberalizzazione dei prezzi, parziale convertibilità della moneta nazionale, lo zloty, chiusura delle imprese inefficienti e dei negozi, prima ondata di privatizzazioni.
L’effetto immediato e a breve fu devastante: la disoccupazione che prima non esisteva, almeno nelle statistiche socialiste, salì in poco tempo a un milione di persone; la paralisi anche delle più piccole ed elementari attività economiche fu completa.
Oggi quel piano, che pochi anni dopo avrebbe riportato la crescita e contribuito a creare ricchezza facendo della Polonia una delle grandi storie economiche di successo dell’ultimo quarto di secolo, sarebbe stato classificato come esperimento di macelleria sociale a cuore aperto.
Chi si è arricchito di più e più velocemente L’evoluzione del Pil Pro capite in dollari correnti a parità di potere d’acquisto (PPP) di 12 Paesi: 10 dell’Est e 2 (Grecia e Portogallo) dell’eurozona a titolo di confronto. Si va dal 1990 al 2018 (con l’eccezione di Lituania che parte dal 1995; Estonia e Lettonia dal 1994; Slovacchia dal 1992). Fonte: World Bank/Oecd Database
Arriva il libero mercato (e torna la carta igienica) La vera distorsione si era però consumata negli ultimi anni del regime comunista. La Polonia era un Paese talmente indebitato e inefficiente che, divorato dall’iperinflazione, da tempo non era in grado di fornire ai propri cittadini molti beni di prima necessità. Perfino la carta igienica era sparita dagli scaffali diventando oggetto di scambi al mercato nero.
Nei mesi immediatamente successivi all’adozione del piano questi beni e molti altri riapparvero come per magia e ovviamente anche la carta igienica. Solo che il commercio si consumava, a negozi chiusi in attesa di essere privatizzati, a cielo aperto, nelle strade del centro che gravitavano intorno al primo grattacielo della città, il Palazzo della Cultura e della Scienza.
Regalo forzato di Stalin negli anni 50, subito dopo l’avvento della democrazia era in odore di demolizione perché ritenuto il simbolo dell’oppressione e della prepotenza sovietica, architettura eclettica che assimilava, pinnacoli neorinascimentali e richiami assiro-babilonesi volendo imitare, per ammissione dei progettisti russi, i grattacieli della New York anni Trenta. All’ombra del grattacielo si allungava il serpentone delle bancarelle e dei teli di plastica appoggiati sulla fanghiglia, sottile come polvere e di colore grigio antracite, che ricopriva le strade della città. C’erano venditori di carpe e pesci gatto, tenuti in vita nelle bacinelle di plastica colme d’acqua stagnante.
La vendetta degli ex comunisti Si preparò la strada, in Polonia come in Ungheria, per un rapido ritorno degli ex comunisti al governo, che nel frattempo si erano riformati abbandonando qualsiasi riferimento al marxismo e abbracciando i princìpi della moderna socialdemocrazia.
Fecero leva sulla disoccupazione, sulla delusione degli esclusi e promisero una transizione dal volto umano. Al secondo giro di libere elezioni tornarono al potere a Varsavia (1992) e a Budapest (1994) gestendo con cinismo e pragmatismo le conquiste dei loro predecessori.
Capii almeno che la storia poteva cinicamente giocare brutti scherzi agli eroi della rivoluzione e che il percorso del 1989 non sarebbe mai stato lineare. Il serbatoio del risentimento aveva cominciato a riempirsi già tre anni dopo la caduta del Muro. E non solo in Polonia. La Germania e il takeover dell’Est Alla Germania ci volle meno di un decennio per mostrare in pieno l’affanno da riunificazione e per capire che la convergenza tra Est e Ovest non sarebbe stata completa, o almeno accettabile, prima di una generazione e forse di più. La definizione di un tasso di cambio alla pari da parte di Helmut Kohl ebbe lo stesso effetto del piano Balcerowicz in Polonia, anche se il trauma della disoccupazione, alta e improvvisa, delle fabbriche chiuse e affidate alla privatizzazione dell’agenzia pubblica Treuhandstalt, venne assorbito molto più rapidamente grazie agli ingenti trasferimenti dai Länder occidentali verso quelli orientali: 80 miliardi di euro lordi all’anno, 70 al netto di tasse e contributi comunque versati dai cittadini dell’Est.
Berlino uscì devastata dalla seconda guerra mondiale, con la resa della Germania. I bombardamenti rasero al suolo case, strade e fabbriche. In alcuni punti la città era un cumulo di macerie
La città fu divisa in quattro zone di occupazione e in particolare in due aree: il settore occidentale, Berlino Ovest, e il settore sovietico, Berlino Est
Dalla sua fondazione, milioni di persone si spostarono dalla Germania Est alla Germania Ovest, finché nel 1961 i vertici della Germania Est (DDR) e dell’Unione sovietica decisero di creare un muro per dividere in due Berlino. Il Muro si estendeva in varie forme lungo i 155 chilometri di confine con Berlino Ovest, 43 dei quali attraversavano la città
All’inizio si trattava solo di un muro con filo spinato, poi si passò ai mattoni e al cemento. Infine la barriera composta da due muri, separati dalla “striscia della morte”, larga tra i 15 e i 150 metri. Nel tentativo di fuga da una parte all’altra della città furono uccise 239 persone
In quegli anni i punti di passaggio tra est e ovest, sorvegliatissimi, erano otto. Il più famoso è ancora oggi il Checkpoint-Charlie, il passaggio con il settore statunitense dove nel 1961 è andato in scena il confronto tra carri armati statunitensi e sovietici
La “cortina di ferro” spezzava la Germania in due sfere di influenza: una statunitense e una russa. Nel 1990 la Germania Ovest contava 62 milioni di abitanti, mentre la Germania Est 16 milioni
L’Europa era percorsa dalla stessa divisione. C’erano i Paesi membri della Nato, alleati degli Stati Uniti, i Paesi più vicini agli Usa che alla Russia, come la Spagna di Franco, quelli neutrali come la Finlandia e quelli aderenti al Patto di Varsavia, alleati della Russia. Gli eventi del 1989 hanno segnato la fine della guerra fredda
L’Europa oggi è molto diversa da com’era in quegli anni. La Germania si è unita ufficialmente nel 1990. La cortina di ferro non c’è più. A guardare i confini, le altre differenze sono a est. La Jugoslavia tra il 1991 e il 2001 si è dissolta in una serie di Stati. Gli anni Novanta hanno segnato anche la fine dell’Urss con l’indipendenza delle repubbliche baltiche e successivamente delle altre repubbliche sovietiche
La riunificazione tedesca l’ho pagata anch’io A oggi le risorse di questo sforzo collettivo ammontano a 2.500 miliardi di euro, in gran parte finanziati dalla tassa di solidarietà che rappresentava, ricordo, una voce importante della mia dichiarazione dei redditi poiché come residente ero tenuto a pagare le tasse in Germania: un’aliquota aggiuntiva del 5,5% calcolata sull’imposta base dovuta al fisco tedesco.
Così, ai numerosi italiani che avevano in odio la Germania senza conoscerla e contribuivano a diffondere la leggenda metropolitana secondo la quale i tedeschi avevano fatto pagare anche a noi la riunificazione, chiedevo sempre con quali modalità l’avessero pagata e se riuscivano a quantificare il costo a loro carico.
Ovviamente nessuno era in grado di rispondere se non con approssimative bestialità sugli eventuali costi occulti. La tassa di solidarietà è oggi in via di esaurimento per la grande maggioranza dei tedeschi, ma già allora la Germania di Gerhard Schröder e della coalizione di governo rosso-verde faceva di tutto perché non fosse solo la riunificazione a definire l’anima del Paese.
Tutti ricordano il cancelliere socialdemocratico per le importanti riforme del welfare e del mercato del lavoro di Agenda 2010, ma in realtà fece altre cose notevoli. Abolì lo jus sanguinis applicando un diritto di cittadinanza basato sul luogo di nascita. Creò la prima legge organica sull’immigrazione perché i flussi di milioni di Gastarbeiter arrivati da mezza Europa e dalla Turchia nei decenni precedenti erano regolati da accordi bilaterali.
E per farla, questa legge, la Germania dovette prima ammettere ufficialmente di essere un Paese di immigrazione, ponendo fine a quella che Heinrich Böll avrebbe definito come il retaggio dell’ipocrisia farisaica dell’establishment della Cdu nel dopoguerra. Né deserto né paesaggio fiorito Il padre della Germania unita, Helmut Kohl, fu uomo di grande foga e passione politica, di nobili e meritori disegni europei, ma alla fine riformò pochino il Paese durante i 16 interminabili anni del suo cancellierato. La Germania presa in carico da Schröder & Co. cresceva poco o non cresceva, perché negli anni precedenti lo slancio nazionale era tutto teso a colmare il divario di reddito e di standard di vita tra Stati orientali e occidentali.
Certo non si era ancora materializzata la promessa del vecchio cancelliere democristiano di «un paesaggio fiorito», ma l’Est già allora era tutto fuorché un paesaggio desertico: Dresda e Lispia sono città ricche e il paesaggio spesso rurale del Meclemburgo-Pomerania Anteriore è pulito, ordinato e dignitoso come quello svizzero.
Nelle ricorrenze importanti della caduta del Muro – il 25° e ora il 30° - si parla sempre di riunificazione mancata, di convergenza lontana e si attribuisce il malessere crescente negli ex Laender orientali alla sfera economica.
Anche se il reddito di un cittadino della ex Rdt oggi è circa l’85% di quello di un cittadino dell’Ovest, lo spirito del tempo ti porta a non considerare il punto di partenza, ma quello d’arrivo, che per molti è illusorio e frustrante come un bersaglio mobile. A pesare è il 15% mancante alla parità di reddito, la sensazione di essere cittadini di serie B e soprattutto di essere ai margini di un impero ricco e neanche troppo benevolo. Chi poteva andarsene se n’è andato, dai due ai tre milioni secondo le fonti.
Tra questi oltre un quarto dei giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Con una simile dinamica migratoria, quella demografica ne consegue. Dal 1990 la popolazione ultra sessantenne è cresciuta di 1,3 milioni di persone.
Germania-Polonia Il ponte Poniatowski, a Varsavia, fu danneggiato durante le due guerre mondiali e poi ricostruito. Sotto, il cartello della vecchia ferrovia che collegava Varsavia-Berlino (foto di Attilio Geroni)
Dopo l’Elba comincia l’Asia In fondo, c’è sempre un Est che preme sull’Ovest, in questa Europa ribaltata dagli eventi del 1989. Gli ucraini, circa 3 milioni, sono emigrati in Polonia, i polacchi, anche qui 3 milioni, hanno cercato fortuna soprattutto in Germania e nel Regno Unito. E i tedeschi orientali hanno scelto di spostarsi “internamente” nella parte occidentale.
Tutto relativo, comunque, a seconda di chi racconta la storia. Konrad Adenauer, aad esempio, detestava Berlino e per lui l’Asia cominciava con l’attraversamento dell’Elba. Chissà cosa avrebbe pensato allora il cancelliere renano di una città come Goerlitz, la più orientale di Germania, che solo il fiume Neisse divide dal suo “doppio” polacco, Zgorzelec? In questo microcosmo di 65mila abitanti si trova una ragionevole spiegazione del malessere e delle inquietudini contemporanee dell’ex Repubblica democratica tedesca.
E’ stata purtroppo una scoperta tardiva: i microcosmi facilitano il lavoro dei giornalisti, ma bisogna essere perseveranti nel cercarli e fortunati nel trovarli. Se quando vivevo e lavoravo in Germania andavo spesso a Wolfsburg e nella Ruhr (Berlino era Berlino e basta) per comprendere certe dinamiche legate allo sviluppo industriale e post-industriale del Paese, solo anni dopo averlo lasciato ho visto apparire sul radar la città-campione di Goerlitz.
Come in Polonia, i ritorni sono stati importanti per capire meglio ciò di cui si è stati testimoni. Due eventi, uno drammatico e uno per così dire ludico, hanno contribuito a questo “ritrovamento”, con la complicità di una ricorrenza. L’annessione della Crimea da parte della Russia e la guerra nel Donbass e l’uscita del film di Wes Anderson, “Grand Budapest Hotel”. Era il 2014, e il 1° maggio ricorreva il 10° anniversario del grande allargamento a Est dell’Unione europea, 10 Paesi in un colpo solo.
Decisi di andare a Goerlitz in quella data anche per attraversare il ponte pedonale che dal 2004 la collegava a Zgorzelec, simbolo di pace e rinconciliazione, e perché in quella cittadina ( e a Dresda) Anderson aveva girato quasi interamente il suo capolavoro. Grand Budapest Hotel, fine della grande illusione Goerlitz ha quello che le guide turistiche, quasi all’unanimità, definiscono come “il più bel centro storico di Germania”. Perfettamente conservato e costantemente restaurato grazie anche alla generosa donazione di un misterioso benefattore, vanta quattromila edifici tutelati dai Beni Culturali che appartengono ad almeno quattro stili architettonici: gotico, rinascimentale, barocco e Jungendstil.
Un gioiellino, insomma, e come tale già set cinematografico di decine di film, a partire da “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino. Nonostante un centro smagliante e un costante via vai di troupe internazionali, Goerlitz è una città fondamentalmente depressa e rancorosa. Dopo la caduta del Muro contava 100mila abitanti, adesso ne ha 65mila, età media oltre 50 anni e 3mila unità abitative vuote, decine di negozi chiusi e affitti talmente bassi – 3 euro al mese a metro quadrato per edifici residenziali storici e di pregio, già ristrutturati - che il comune negli anni scorsi ne ha messi a disposizione centinaia, a canoni più vantaggiosi, per attirare giovani famiglie polacche. Se in Germania alle ultime elezioni politiche del 2017 l’estrema destra di AfD ha raggiunto a livello federale il 12,4% dei consensi e in Sassonia è stato del 27%, Goerlitz si è spinta al 33 per cento. Nei villaggi che la circondano si arriva al 45 per cento.
The Grand Budapest HotelGli interni del Görlitz department store, dove fu girato The Grand Budapest Hotel (Foto Afp)
Ed è qui che convergono il malessere dell’Est, tedesco e non, la precarietà dell’assetto europeo post-1989, gli echi di una guerra che si combatte ai confini dell’Unione e il grande fuori-campo del film di Anderson, che con il linguaggio delle commedie svitate e sofisticate degli anni Trenta, tutte ritmo, eleganza e battute folgoranti, racconta l’incombere di un’altra guerra europea, la perdita delle brevi ma importanti libertà di movimento che l’avevano preceduta, il ritorno dell’intolleranza, e la rinnovata paura dell’altro.
Non a caso il film è dedicato con passione e affetto a Stefan Zweig, il grande scrittore e poeta austriaco che dall’esilio brasiliano distillò ne “Il mondo di ieri” tutti questi rischi che si sarebbero poi materializzati davanti ai suoi occhi costringendolo ad abbandonare la Mitteleuropa che bruciava i suoi libri.
La guerra in Ucraina, Zweig, Anderson e l’accattivante Goerlitz mi hanno così fatto pensare, per la prima volta, che il 1989 non sarebbe stato irreversibile come ho creduto per 25 anni. Siamo forse come l’immaginaria Repubblica di Zubrowka di Grand Budapest Hotel, smagliante e decadente al tempo stesso? Non necessariamente.
La fine di un’illusione non significa che automaticamente si realizzi il suo opposto. E’ solo una nuova consapevolezza. Berlino sarà comunque splendida e commovente sabato 9 novembre 2019, come lo era stata il 9 novembre 2014 con le sue ottomila sfere bianche e luminose, che dopo aver segnato l’antico percorso del Muro che non c’è più erano state liberate nel cielo più famoso e raccontato del mondo.
Lichtgrenze (confine di luce) installazione temporanea della Kulturprojekte Berlin per la celebrazione del 25esimo anno della caduta del muro. Nasce da un’idea degli artisti fratelli Christopher Bauder und Marc Bauder
Per approfondire: