Nel 2010 il mondo era alle prese con la più grande crisi economica dal dopoguerra. Barack Obama era da poco presidente degli Stati Uniti. E l'Italia usciva dal suo anno peggiore, il 2009, con il Pil in calo del 5%. In un decennio molto è cambiato, come raccontiamo in queste 12 schede.
di Paolo Bricco
La rimodulazione del capitalismo italiano avvenuta nel decennio che si va a chiudere rappresenta la conclusione di un processo che si è attivato negli anni Novanta. Negli anni Novanta il sistema industriale italiano ha perso una parte significativa della sua economia di matrice pubblica, ma ha assistito al ricompattamento delle famiglie del capitalismo novecentesco e al consolidamento di alcuni nuovi protagonisti.
Il gruppo simbolo del Paese, la Fiat, ha iniziato nel 2011 ad operare una serie di trasferimenti delle sedi fiscali e societarie del gruppo, in coincidenza con la concentrazione dei propri interessi al di fuori del Paese: adesso, con il progetto di fusione con PSA, si completa questo processo.
Un altro gruppo simbolo del Paese, la Pirelli, ha sviluppato un meccanismo di governance in grado di mantenere qui un radicamento strategico e una sorta di primazia manageriale della attuale dirigenza, con una forma di transizione soft verso il definitivo controllo che nei prossimi anni avverrà per mano della ChemChina, che già adesso ha la maggioranza azionaria.
Il terzo gruppo simbolo del Paese, Luxottica, è impegnato a trovare un equilibrio fattuale – non giuridico – nel processo di fusione con i francesi di Essilor, una operazione che in caso di successo porterebbe ad una leadership che da europea si farebbe mondiale.
Il quarto gruppo simbolo, Mediaset - stretto fra la rivoluzione dei nuovi media e il problema del posizionamento internazionale in termini di equity e di business – ha compiuto una scelta particolare: ha posto in Olanda una holding che, appunto, dovrà compiere sinergie di tutti i tipi – non solo fiscali – fra tutte le sue componenti europee, per provare a rendere più competitivo uno dei gruppi simbolo di un capitalismo italiano che, nel corso di questo decennio, è mutato radicalmente.
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Due elementi di fatto carichi di simbologia evidenziano che i dieci anni che stanno per concludersi sono stati sicuramente un” Decennio Cinese”: se il 2010 fu l’anno in cui la Cina scalzò il Giappone dalla posizione di seconda economia mondiale che aveva detenuto per oltre quarant’anni, è dei giorni scorsi la cerimonia con cui la “Shandong” è entrata in servizio come gioiello della Marina, prima portaerei costruita interamente con risorse e competenze nazionali.
Dopo il sorpasso sul Sol Levante, l’economia cinese è continuata a crescere a ritmi impressionanti - sia pure con un recente progressivo rallentamento intorno al 6% - tanto che vari economisti, riferendosi al parametro della parità del potere di acquisto, già considerano compiuta l’ascesa al primato globale a scapito degli Stati Uniti. La più recente notizia mette in chiaro che Pechino ha ormai ambizioni globali anche dal punto di vista militare, come testimoniato dalla volontà di creare una “Blue-water Navy” in grado di operare in ogni punto degli oceani.
Negli anni centrali del decennio, spiccano altri due eventi-simbolo dell’ascesa cinese: nel 2013 avvenne il primo “allunaggio” di un veicolo spaziale made in China, seguito da altri successi dei programmi spaziali e satellitari, a volte in prima assoluta (come l’allunaggio del gennaio di quest’anno del Chang’e-4 sul” lato nascosto” della luna).
Inoltre è dal 2015 che è stata avviata la maxi-iniziativa strategica sulla Nuova Via della Seta - ribattezzata in seguito Belt and Road Initiative (BRI)- che destinando ingenti risorse a vasti programmi infrastrutturali finisce per rappresentare la proiezione ormai globale della forza economica, finanziaria e politica del Paese. Il piano industriale-strategico “Made in China 2025” stabilisce per la metà del decennio obiettivi di raggiungimento di eccellenza tecnologica in svariati settori.
E’ ormai chiaro che gli Usa si propongano lo scopo di rallentare l’ulteriore upgrading tecnologico di Pechino: il contenzioso commerciale è solo un aspetto del contrasto con un Paese diventato un concorrente strategico anche dal punto di vista militare. Non che la Cina non abbia problemi e debolezze, palesi o semiocculte: dall’ingente mole di indebitamento nel sistema alle tensioni in specifiche aree territoriali (dallo Xinjang a Hong Kong). Resta da verificare se il decennio entrante vedrà il Paese correre bruciando le tappe, come ha fatto negli ultimi dieci anni, oppure tirare un po’ il freno.
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La grande crisi finanziaria del 2008 ha spinto le banche centrali in tutto il mondo a mettere in atto misure espansive senza precedenti in tutte le maggiori economie occidentali. Con l’azzeramento del costo del denaro prima e gli acquisti massicci di titoli sui mercati (Quantitative easing) le banche centrali si sono spinte in territori rimasti inesplorati finora.
Queste politiche monetarie sono state solo in parte efficaci nel rilanciare l’economia e combattere quello che è diventato un male endemico: la bassa inflazione. Meno discutibile è stato l’impatto che questa strategia ha avuto sui mercati finanziari che hanno abbondantemente beneficiato dell’enorme massa di liquidità immessa nel sistema in questi anni.
Il decennio delle Borse
Sia il mercato azionario sia quello obbligazionario hanno fatto registrare in questo decennio performance estremamente positive. In 10 anni l’indice Msci World delle Borse mondiali ha messo a segno un rialzo del 100% e la capitalizzazione del mercato azionario globale, per effetto del rialzo dei prezzi e delle nuove quotazioni, è passata in 10 anni da 32mila e 900 miliardi di dollari agli attuali 78mila e 800 stando ai numeri di S&P Market Intelligence. A trainare le Borse mondiali in questi anni è stata soprattutto Wall Street (+186%) e in particolare il comparto tecnologico: l’indice Nasdaq ha messo a segno un rialzo del 290 per cento.
L’impatto della rivoluzione tecnologica
La politica monetaria delle banche centrali è stata decisiva nell’alimentare la propensione al rischio nel mercato decisiva nell’innescare il rialzo dei mercati ma non è stato l’unico motore dietro l’avanzata delle Borse. L’ultimo decennio è stato segnato dalla rivoluzione tecnologica e dalla diffusione di internet in mobilità e questo, sui mercati, si è tradotto in un drastico mutamento degli equilibri settoriali. Soprattutto a Wall Street dove la tecnologia è passata a pesare dal 19 al 24% dell’indice S&P 500.
Piazza Affari ostaggio delle Banche
In Europa la piazza che ha regalato le maggiori soddisfazioni è stata quella di Francoforte che ha guadagnato il 123% sulla scia dell’exploit dei grandi titoli esportatori simbolo del Made in Germany (in particolare i big dell’auto). Il mercato azionario europeo, che in media ha guadagnato il 66% nell’ultimo decennio, si è mosso in ordine sparso: all’avanzata della piazza di Francoforte che si è mossa in tandem con la crescita brillante dell’economia tedesca ha fatto da contraltare una performance decisamente meno brillante di listini come quello di Milano.
L’indice Ftse Mib nell’ultimo decennio ha guadagnato appena il 3,87% penalizzato dalla debolezza del suo comparto più rappresentativo: quello bancario. Prima la crisi dello spread del 2011-2012, poi la recessione e l’ondata di svalutazioni sui crediti hanno messo sotto pressione il conto economico degli istituti e i corsi azionari del settore che in dieci anni si sono ridotti del 66 per cento.
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Le prime ricerche sul climate change risalgono a fine ‘800. Sarebbe servito un secolo, e oltre, perché il fenomeno venisse percepito come un’emergenza globale. Su questo fronte, il decennio 2009-2019 si è chiuso con diversi campanelli d’allarme e qualche buona notizia. I primi sono scanditi da un’accelerazione del fenomeno sempre più acuta.
Secondo i dati dell’Organizzazione metereologica mondiale, tra 2015 e 2019 si è registrato un tasso di crescita della CO2 superiore del 20% a quello dei cinque anni precedenti: la temperatura che si registra nel 2019 è superiore di 1,1 gradi centigradi rispetto al mondo antecedente alla rivoluzione industriale, con un balzo di 0,2 gradi sul solo 2011-2015.
Le buone notizie riguardano una maggiore sensibilità sulla crisi climatica e qualche cenno di risposta politica. Dopo i primi esperimenti di piazza, nel 2014 il People’s Climate Movement ha dato vita a un’ondata di marce per clima con centinaia di migliaia di partecipanti. Nel 2018 è stata la volta dei Fridays for future, gli scioperi ambientalisti ispirati dalla militante svedese Greta Thunberg.
La politica ha reagito ai solleciti, anche se con i ritmi lenti della diplomazia. Nel 2015 è arrivata la firma dell’Accordo di Parigi, un trattato per contenere gli aumenti di temperatura entro i 2 gradi centigradi. Nel 2019 la nuova Commissione europea di Ursula von der Leyen si è fissata come priorità il contrasto al climate change, con tanto di un maxi-piano industriale a impronta verde: il «Green new deal».
Anche qui, però, c’è chi marcia in direzione opposta. Gli Usa di Donald Trump usciranno dall’accordo di Parigi nel 2020, Cina e India si tengono a distanza da qualsiasi politica verde e “persino” l’Europa è pervasa da scetticismi. Il clima, quello politico, deve ancora cambiare.
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di Manuela Perrone
Né di destra né di sinistra, liquido, sovranista a corrente alternata, multilateralista al punto da strizzare l’occhio alla Cina e alla Russia, virtuale ma ben radicato nei Palazzi che contano, profeta dell’«uno vale uno» eppure guidato da una ristretta oligarchia.
Nato nell’ottobre del 2009 grazie alla visione dell’imprenditore Gianroberto Casaleggio e al megafono di Beppe Grillo, in dieci anni il M5S si è trasformato con disinvoltura da movimento di piazza che doveva «aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno» a movimento di governo che, almeno negli auspici del leader Luigi Di Maio, «sarà sempre l’ago della bilancia» dei prossimi Esecutivi.
Se fosse un film, il M5S sarebbe lo Zelig di Woody Allen, capace di assumere le sembianze di chi frequenta. Negli anni della grande recessione prospera sui contraccolpi della globalizzazione e sulla crisi dei corpi intermedi, presentandosi ai cittadini provati e impoveriti come una forza anti-sistema, giustizialista, ambientalista, critica con l’impianto neoliberista, carica di rabbia contro la “casta” e soprattutto portatrice di una soluzione: la Rete e la democrazia diretta come alternative all’autoreferenzialità della politica.
Il primo successo alle elezioni politiche del 2013 prepara il terreno al trionfo del 2018. In mezzo due novità: l’ascesa di Davide Casaleggio alla guida di Rousseau, cuore operativo del M5S, e quella di Di Maio a capo politico. La scalata al Governo riesce, ma i consensi precipitano. Per la Lega di Salvini il Movimento si rivela un prezioso “traghettatore” di voti.
Per il Pd di Zingaretti un alleato necessario ma non convinto. Casaleggio e Di Maio provano a blindarsi dentro un partito disegnato a loro immagine e somiglianza, ma la leadership traballa. Alle loro spalle, l’ombra ingombrante del premier Giuseppe Conte, che si definisce «un cattolico democratico».
Che la biodegradabilità del Movimento si risolva in una Balena bianca 4.0? È presto per dirlo. Ma il re è nudo: dietro la maschera di partito post-ideologico si intravede il rischio di uno Zelig spuntato dalle macerie dell’antipolitica. Una forza politica banderuola, ancorata soltanto alla convenienza del momento.
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di Attilio Geroni
Pur essendo vecchio come la democrazia, il populismo continua a essere un rompicapo per la scienza politica e la sua definizione resta sfuggente. L'aspetto più comunemente accettato dagli accademici risale all'analisi dell’olandese Cas Mudde, secondo cui il populismo è la forza che contrappone una non meglio specificata volontà generale a quella di una altrettanto vaga élite.
La prima è depositaria di bene e verità; la seconda è corrotta, opaca. Semplificando ulteriormente, il populismo è quel fenomeno socio-politico che per prosperare ha bisogno di un nemico, immaginario o reale che sia.
Nel caso di Donald Trump è il mondo esterno che ha approfittato degli Stati Uniti (l’Europa, la Cina, il Messico, il Canada, a seconda dei casi e delle convenienze) a giustificare la dottrina introversa e isolazionista dell’America First. Nel caso di Recep Tayyp Erdogan è la chiusura del mondo occidentale nei confronti della Turchia ad alimentare in parte la sua azione politica ultra nazionalista.
Il leader ungherese Viktor Orban ha invece consolidato il suo potere difendendo i confini, l’identità cristiana e l’omogeneità etnica del Paese dai grandi flussi migratori generati dalle guerre in Medio Oriente e dalla povertà in Africa.
Il gioco della contrapposizione, con la complicità dei postumi della grande crisi economica globale del 2008-2009, ha riscosso un grande successo nell’ultimo decennio. Secondo il Global Populism Database promosso dal Guardian, leader populisti, che sono raddoppiati rispetto all'inizio del nuovo millennio, governano Paesi con una popolazione aggregata di quasi due miliardi di persone, mentre i partiti populisti stanno guadagnando rapidamente terreno in decine di democrazie, molte delle quali in Europa.
La maschera è caduta definitivamente anche nel Regno Unito, dove i Conservatori hanno vinto le ultime elezioni essenzialmente grazie allo slogan più populista che si potesse immaginare dai tempi del referendum del 23 giugno 2016: “Get Brexit Done”, portare a termine la Brexit, chiude il cerchio dell'introversione politica britannica consegnando al populismo di Boris Johnson un partito cosiddetto mainstream.
di Isabella Bufacchi
Il 2020 si apre con la Bce che acquista mensilmente 20 miliardi di bond di vario genere. È dal 2009 che fa questo tipo di shopping non convenzionale: in un decennio ha accumulato attività in bilancio per 2.700 miliardi circa tra titoli di Stato, obbligazioni, cartolarizzazioni. Ma non è tutto. Il 2009-2019 si chiude su scala mondiale come il decennio nel segno del QE, la politica monetaria ultra-accomodante del quantitative easing.
Tra il 2008 e il 2016, le sei principali banche centrali al mondo hanno lanciato oltre 30 programmi differenziati di acquisto di titoli, in reazione alla Grande Crisi, la più violenta crisi finanziaria ed economica dal Dopoguerra: il QE ha dominato il decennio che si è appena chiuso. I bilanci di Bce, Federal Reserve, e le banche centrali di Regno Unito, Giappone, Svizzera e Svezia sono quadruplicati dal 2009, inondando il mondo di liquidità per migliaia di miliardi in controvalore in euro.
Gli interventi mastodontici della Bce hanno scongiurato la Depressione e la Deflazione, hanno tenuto in vita il mercato obbligazionario e interbancario e assicurato il credito all’economia in tempi di crisi eccezionali: anche con un ruolo di "supplente" per alimentare la crescita quando i governi latitavano o quando il motore della macchina dell'Eurozona non andava a pieni giri.
Interventi di portata epocale però sono arrivati non solo dalle banche centrali. La Banca Mondiale ha rilevato che nei Paesi industrializzati ed emergenti il debito pubblico e privato è arrivato alla cifra record di 55.000 miliardi di dollari, con gli Stati che hanno fatto la parte del leone.
Dal 2010 lo stock del debito mondiale in rapporto al Pil è cresciuto del 54% arrivando al 168%: anche in questo caso gli eccezionali interventi di spesa pubblica, incoraggiati dai tassi ultrabassi delle banche centrali e dal QE, sono stati mirati a sostenere la crescita e assicurare la stabilità finanziaria.
di Valentina Furlanetto
Che il numero di immigrati in Italia sia aumentato in dieci anni è sotto gli occhi di tutti. Da 3,8 milioni a 5,2 milioni di persone, dice l’Istat, con un aumento del 419 per cento e un’incidenza sulla popolazione complessiva che è passata dal 6,5% all’8,5% attuale. Meno scontato il fatto che l’aumento non sia dovuto agli arrivi dai barconi, molto enfatizzati mediaticamente, ma alle sanatorie di immigrati irregolari (400 mila fra il 2009 e il 2012) e la nascita di bambini stranieri.
La vera crescita si registra nel numero degli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana: un milione negli ultimi 10 anni. Nel 2008 furono rilasciate 53.369 nuove cittadinanze, nel 2017 e 2018 sono state 148 mila. Se allarghiamo lo sguardo dall’Italia al mondo scopriamo che quello delle migrazioni è un fenomeno in aumento ovunque.
Il numero di persone immigrate in un altro Paese nel 2017 è stato di 257,7 milioni, nel 2000 erano 173 milioni mentre nel 1980 102 milioni. Il continente in cui numericamente ci sono più immigrati è l’Asia, seguita dall’Europa. In Europa la Germania è il Paese che ha al suo interno più immigrati, precisamente 12.165.083, seguita dal Regno Unito con 8.841.717.
L'Italia, con 6 milioni, è sesta, dopo Francia e Spagna. Quando si parla di Africa i pregiudizi ci portano a pensare ad un continente in continuo movimento, impegnato ad emigrare verso l’Europa. Che sia in movimento è vero, che un intero continente si stia spostando verso un altro invece non ha alcun fondamento.
Le migrazioni verso l’Europa ci sono, ma sono quelle interne che sono le più consistenti. In Europa vivono 9,2 milioni di africani, più o meno pari al numero degli europei che vanno in Nord America, che sono 8 milioni. Invece gli immigrati interni in Africa nel 2017 erano poco più di 24 milioni.
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di Luca Salvioli
Il primo iPhone fu lanciato da Steve Jobs nel 2007, ma arrivò in Italia a metà 2008. Nel 2010, quando è iniziato il decennio che va a concludersi, Apple lanciò l’iPhone 4. Facebook, che dall’estate 2008 anche in Italia stava crescendo forte, da pochi mesi aveva introdotto i commenti ai post. Amazon, in autunno, apriva il suo sito di ecommerce in Italia. L’inizio del decennio ha così segnato la genesi del nostro universo digitale.
Il nostro rapporto con il telefono, nel frattempo diventato smartphone, è cambiato radicalmente. Nel 2010 nessuno guardava video sul cellulare durante un viaggio in metropolitana. Non esisteva Instagram e neppure Netflix. Quello che è successo è stata una progressiva crescita della nostra fruizione dei contenuti su mobile.
Sono cresciute le dimensioni dello schermo dei telefoni, aumentate le capacità di banda fino al 5G, in diversi Paesi già disponibile, e sono diventati popolari diversi servizi via app che hanno fatto del nostro telefono uno strumento capace di un impatto estremamente reale sull’economia e gli equilibri urbani. Come Uber e Airbnb.
La pervasività del digitale ha arricchito enormemente le grandi piattaforme e i loro azionisti: Apple, Google, Amazon e Facebook. L’atteggiamento nei loro confronti da parte di governi e istituzioni nella seconda parte del decennio è cambiato. Sono accusate di strozzare l’innovazione in virtù della loro forza strutturale e finanziaria.
E di utilizzare in maniera troppo disinvolta i dati degli utenti. Dopo il caso Cambridge Analytica è soprattutto Mark Zuckerberg a essere sotto accusa. Che è stato il ceo che ha visto maggiormente crescere il suo potere in questo decennio.
Oggi il panorama del digitale appare meno entusiasmante, da anni alla ricerca della “next big thing”. Non solo: è proprio messa in discussione la retorica californiana della “disruption”, alla luce dell’impatto devastante che sta avendo su decine di settori tradizionali.
Cosa succederà con l’intelligenza artificiale? Intanto i teenager guardano a Tik Tok, il primo vero competitor per Zuckerberg. Che però non è nato a Palo Alto, ma a Pechino.
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di Luca Orlando
È stato il decennio del recupero. In gran parte mancato, tuttavia. Perché se in termini di posti di lavoro assoluti oppure di export i livelli precedenti sono stati raggiunti o anche ampiamente superati (è il caso del made in Italy), nei valori di fondo lo shock del 2009 ha lasciato nel Paese cicatrici ancora visibili.
Inevitabile, del resto, per un decennio che ha potuto contare solo su pochi anni “buoni” (il bienno 17-18, in particolare) a fronte di molti altri sospesi tra stagnazione e recessione.
Dove siamo? In termini di prodotto interno lordo ancora cinque punti al di sotto dei livelli 2008, che sono distanti quasi 20 in termini di produzione industriale. Inevitabile? Non per il resto d’Europa che oggi in termini di output si trova ben oltre quella soglia.
Prendendo come base ciò che accadeva nel 2000 la zona euro è oltre quota 110, noi 25 punti sotto. Altro colpo ferale è quello subito dal settore immobiliare, motore di un indotto sterminato tra le Pmi italiane. Settore arrivato negli anni “buoni” anche a 300 mila transazioni a trimestre, ora stabilmente a due terzi di quel valore.
Se l’Italia ha resistito e ha saputo ripartire lo deve però proprio al suo sistema manifatturiero, in particolare alla sua capacità di vendere nel mondo: nel 2009, dopo aver lasciato sul campo in un solo anno 77 miliardi di vendite, il made in Italy valeva 369 miliardi.
A fine anno sarà 110 miliardi oltre quella soglia. Tenuta dell’export che rappresenta uno dei pochi spazi di luce in un quadro desolante, che vede il Pil (se andrà bene) crescere dello 0,2%, mentre produzione, ricavi e ordini dell’industria presentano un corale segno meno. Così come in affanno siamo dal lato dell’efficienza, con una produttività del lavoro che dal 1995 al 2018 presenta un tasso di crescita pari a un quarto rispetto all’Europa.
Mancano investimenti, i consumi arrancano, l’incertezza frena le scelte di imprese e famiglie, mentre i dazi minacciano anche la “fiammella” dell’export. Non l’Eldorado, e neppure l’inferno, tuttavia, guardando al passato recente.
Quando in un solo trimestre fallivano quasi 5mila aziende, le fabbriche chiudevano, si erogavano in un anno 1,2 milioni di ore di cassa integrazione. Ora, pur con tutte le difficoltà del caso, siamo a un quarto di quel valore.
di Giorgio dell'Orefice
Negli ultimi dieci anni si è parlato spesso del crescente appeal del settore agroalimentare italiano. Un appeal testimoniato da numeri indicativi come il record europeo di imprese agricole condotte da giovani (oltre 56mila) o dai positivi numeri relativi alle iscrizioni agli istituti agrari o alle facoltà di agraria in Italia.
Ma il dato che più di tutti testimonia l’ottimo stato di salute del comparto del Wine & Food italiano è quello relativo all’export che negli ultimi dieci anni ha messo a segno un balzo dell’84% (passando da un fatturato all’estero di 19 miliardi a uno di 35) trainando al rialzo l’intero giro d’affari dell’industria alimentare italiana passata nello stesso periodo da 120 a 145 miliardi di euro.
In questo periodo, secondo i dati di Federalimentare, le migliori performance sono state messe a segno dal comparto export oriented per eccellenza, ovvero quello del vino made in Italy (più di una bottiglia su due è venduta sui mercati internazionali) il cui giro d’affari estero è passato da 3,8 a 6,8 miliardi, +80,3%. Ma ottimi risultati sono stati anche quelli messi a segno dal settore dolciario (4,6 miliardi di export, +119% rispetto a dieci anni fa), dal settore dei salumi (1,7 miliardi di esportazioni, +92%) e dal settore lattiero caseario (3,4 miliardi +125% rispetto al 2009).
Bene anche il comparto della trasformazione degli ortaggi (2,4 miliardi di export nel 2019 e +76% in dieci anni) come anche un altro prodotto bandiera del made in Italy: la pasta (2,5 miliardi di export, +68% rispetto al 2009).
Tra i paesi che hanno trainato lo sviluppo dell’export alimentare italiano negli ultimi dieci anni il principale cliente si è confermato la Germania, (con acquisti dall’Italia per 5,1 miliardi, +45% in dieci anni), seguita dagli Usa (4.7 miliardi e +113% rispetto al 2009).
Al terzo posto quello che è anche il principale competitor del Food made in Italy, la Francia, che ha importato dall’Italia l’equivalente di 4 miliardi di euro con un balzo rispetto al 2009 del 60%. Ottima performance infine anche quella del Regno Unito i cui acquisti alimentari dall’Italia sono passati dai quasi 2 miliardi del 2009 agli oltre 3,1 miliardi del 2019 (+55%).
di Davide Colombo
Grazie alla crisi dei debiti sovrani nel 2011 il sistema di calcolo contributivo delle pensioni italiane è entrato a regime per tutti. La riforma Fornero ha attuato quello che con la riforma Dini del 1995 non si ebbe il coraggio di fare, lasciando così una transizione costosa con pensioni a calcolo misto-retributivo che sarebbe terminata a metà dei prossimi anni Trenta.
La riforma del 2011 fa un passo di equità e garantisce una minore spesa previdenziale per 60 punti di Pil, in termini cumulati, entro il 2060 (stima della Ragioneria generale dello Stato; Nadef 2019).
Ma il passo è troppo grande per la politica italiana, che subito dopo aver approvato la riforma corre ai ripari cercando tutte le forme di “flessibilità” possibili per rispondere alle domande di lavoratori e imprese che considerano troppo elevata un’età di pensionamento per vecchiaia attorno ai 67 anni (attuale media Ocse).
Ne seguono 8 salvaguardie per garantire circa 144mila pensionamenti anticipati a lavoratori “esodati” (costo 11 miliardi e ancora nell’ultima sessione di bilancio abbiamo visto che altri 6mila lavoratori hanno chiesto il diritto a questa uscita anticipata).
Poi arrivano le “flessibilità in uscita” dei governi Renzi e Gentiloni, con l’Ape sociale (prorogata per un altro anno), l’Ape volontario (già chiuso), Rita, il cumulo gratuito per il calcolo della pensione, le agevolazioni per i lavoratori precoci o per quelli impegnati in attività usuranti, le diverse proroghe di “Opzione donna”.
Oltre alle flessibilità già prevista dalla riforma Fornero se ne aggiungono altre sei o sette, fino a arrivare a “quota 100” del governo gialloverde. La sperimentazione che assicura un’uscita certa con 62 anni e 38 di versamenti minimi andrà avanti fino al 2021, con un costo cumulato entro il 2028 di circa 41 miliardi (sempre Rgs, ma la stima è prudenziale).
Il nuovo governo assicura da gennaio un tavolo tecnico-politico per risolvere il problema che si porrà a fine corsa, quando tra i due lavoratori con 38 anni di contributi separati per un mese dalla nascita (uno a dicembre 1959 l’altro a gennaio 1960) si apre uno scalone di 5 anni per il pensionamento.
Una nuova “flessibilità” da trovare, insomma, ma che difficilmente potrà essere strutturale, perché è difficile pensare che il governo che seguirà a questo non rimetta a sua volta mano al cantiere delle pensioni. Dopo “quota 100” Salvini aveva promesso “quota 41” e sul mercato elettorale italiano certe promesse pesano.
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