27 luglio 2023
L’Unione europea sta provando a ridurre la sua dipendenza economica da Pechino. In alcuni settori come l’automotive e l’high-tech questa dipendenza sembra però crescere, creando più di un grattacapo per Bruxelles considerato il loro peso economico e la loro rilevanza strategica. Tra possibili dazi e ban le soluzioni per attuare un de-risking non mancano, ma sono economicamente e politicamente costose. Quali sono i rischi per il tessuto industriale e sociale europeo? Quali le prospettive future?
Tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023, la Cina è diventata il primo esportatore di automobili al mondo. Un sorpasso a danni di Giappone e Germania che era ormai inevitabile visto l’opposto andamento delle rispettive industrie. A Tokyo e a Berlino le vendite di auto all’estero sono infatti in costante calo nell’ultimo quinquennio (con il 2021 unica eccezione dovuta al rimbalzo post lockdown). Al contrario, Pechino lo scorso anno ha esportato il triplo delle auto che nel 2017.
Sempre più di queste auto prodotte in Cina vengono importate dai Paesi dell’Unione europea: dalle 100mila unità del 2017 si è passati al mezzo milione attuale. Nel giro di cinque anni la Cina è così diventata il principale fornitore di auto per l’Europa. La ragione dietro a questi trend è da cercare sotto il cofano. Non potendo facilmente colmare il gap di specializzazione con Giappone e Germania sui motori termici, la Cina ha concentrato tutti i suoi sforzi e investimenti sulla produzione di motori elettrici, in cui è diventata leader globale.
Sei delle 10 principali aziende produttrici di batterie elettriche sono cinesi, con due produttori, CATL e BYD a rappresentare oltre la metà del mercato globale. Non sorprende che più di un terzo di tutte le esportazioni mondiali di veicoli elettrici siano imputabili alla Cina. Questa percentuale sale al 55% se si considerano le importazioni dell’UE di full electric dalla Cina.
A questo punto, bisogna però fare un'importante precisazione. Circa il 60% delle esportazioni cinesi di veicoli elettrici verso l'Europa sono consegne per marchi occidentali che hanno i propri stabilimenti in Cina. È il caso soprattutto di Tesla, che nella sua fabbrica di Shanghai produce fino a 1,25 milioni di auto.
Non si può quindi parlare di invasione di veicoli cinesi in Europa, tanto più che la loro quota sul totale dei veicoli elettrici nel Vecchio Continente è ancora inferiore al 5%. Tuttavia, questa percentuale è data in forte crescita nei prossimi anni, complice un vantaggio di prezzo evidente per i produttori cinesi.
I marchi cinesi hanno infatti costi di produzione fino al 30% inferiori a quelli dei concorrenti europei, grazie ad altissimi livelli di automazione e integrazione dei processi lungo tutta la supply chain. BYD produce autonomamente quasi tutto quello che c’è nell’auto, batterie e semiconduttori compresi. Alcune delle materie prime usate per queste componenti provengono da miniere di sua proprietà.
Ecco, quindi, che la compagnia cinese può permettersi di mettere sul mercato europeo la Seagull, una berlina a due volumi, in linea con gli standard di sicurezza UE, con un prezzo di listino che probabilmente sarà intorno ai 12mila euro. Come anche annunciato da altri produttori cinesi, ad esempio SAIC Motor, BYD sembrerebbe inoltre intenzionata ad aprire impianti di produzione direttamente sul suolo europeo.
Secondo uno studio condotto da Allianz, se questi trend dovessero confermarsi, la progressiva penetrazione dei player cinesi nell’UE comporterà un calo da 24 miliardi di euro nel valore aggiunto generato dal settore dell’automotive europeo. A meno che l'UE non imponga tariffe antidumping o restrizioni all’esportazione sulla scia di quanto fatto dagli Stati Uniti con le auto giapponesi nel 1981.
Tali misure mediamente comportarono un maggior costo per le importazioni negli USA di auto made in Japan stimato in 1.114 dollari. Complessivamente equivalse a un trasferimento complessivo di 2 miliardi di dollari dalle tasche dei consumatori statunitensi a quelle dei produttori giapponesi.
Non sarebbe dunque facile per i legislatori europei giustificare un tale esborso per i consumatori europei il cui potere di acquisto è già provato dall’alta inflazione. Così come non bisogna dare per scontata la capacità politica europea di sostenere una guerra commerciale con Pechino.
La memoria va al 2013 e alle divisioni tra Stati membri che annacquarono la proposta della Commissione di adottare misure antidumping e anti-sovvenzioni sui pannelli solari cinesi. Anche in quel caso i generosi sussidi statali concessi ai produttori cinesi permettevano loro di vendere sul mercato europeo a prezzi non competitivi per le aziende dell’UE.
I dazi antidumping proposti nel 2013 non riguardavano solo i pannelli solari provenienti dalla Cina ma, nelle iniziali intenzioni della Commissione, anche le apparecchiature per le telecomunicazioni. Si preferì non agire. A distanza di 10 anni, le conseguenze di questa non scelta sono ben visibili negli attuali livelli di dipendenza da aziende cinesi per le reti 5G nazionali, superiori al 30% in 18 Paesi europei.
Eppure, il rischio è risaputo: la Cyber Security Law vigente in Cina obbliga gli operatori di rete a fornire supporto agli organi di polizia e alle agenzie di intelligence, nella salvaguardia della sicurezza e degli interessi nazionali. Ovvero, quegli stessi operatori cinesi delle reti 5G in Europa potrebbero essere costretti a collaborare con il governo di Pechino, rivelando dati europei sensibili.
Per proteggersi da questa possibilità, la Commissione nel 2020 ha concordato un pacchetto di strumenti sulla sicurezza delle reti 5G (il 5G Security Toolbox) per limitare o escludere le aziende cinesi dalle infrastrutture di connettività europee. Tuttavia, dei 27 Stati membri, soltanto dieci hanno implementato questo pacchetto nella relativa legislazione nazionale.
La Commissione ha anche imposto il divieto di utilizzo di operatori 5G considerati ad alto rischio (Huawei e ZTE) per i suoi sistemi informatici e per quelli delle sue aziende fornitrici. Non è l’unico ban nei confronti di compagnie cinesi che l’esecutivo dell’UE si è autoimposto. A fine febbraio, l’applicazione TikTok è stata messa al bando sugli smartphone dei dipendenti della Commissione, del Consiglio e dell’Europarlamento.
La compagnia proprietaria ByteDance ha più volte dichiarato che non condividerà mai con il governo cinese i dati di cui è in possesso sui 120 milioni di suoi utenti europei, e si è impegnata a conservarli dentro il territorio comunitario. Tuttavia, l’ammissione da parte della stessa ByteDance che alcuni suoi dipendenti hanno utilizzato TikTok per localizzare i movimenti di due giornalisti statunitensi, ha convinto palazzo Berlaymont ad adottare delle contromisure.
Certo, finora più che i social cinesi sono stati quelli sviluppati negli Stati Uniti a creare problemi all’Europa. Il caso Cambridge Analytica sta a ricordarcelo, con i dati di quasi 3 milioni di account Facebook europei raccolti senza il loro consenso e usati per scopi di propaganda politica.
Da allora l’UE ha alzato le sue difese in tema di protezione della privacy, costringendo gli operatori stranieri ad adeguarsi alle normative comunitarie. Tuttavia, per quanto ridotte, le potenziali criticità permangono, in particolare relativamente a un possibile utilizzo di TikTok come mezzo di promozione della propaganda cinese.
Ma di fronte a questi presunti rischi, i cittadini europei avrebbero intenzione di fare a meno di una delle loro app più utilizzate? E in generale quanto sono disposti a rinunciare al rapporto economico con la Cina per ottenere una Europa più resiliente? Le risposte a queste domande, su cui gli stessi Paesi UE sono più che mai divisi, nella terza ed ultima parte di questo long-read EuroCina, presto in uscita.