L’altro dominio,
quello dei soldi
Marina si sposa a vent’anni, trent’anni fa. Ci si sposava prima, in quegli anni lì. Si era iscritta all’università, voleva laurearsi in filosofia, magari insegnare. Intanto, per mantenersi negli studi, aveva deciso di iniziare a lavorare.
Col matrimonio, però, le cose cambiano. Suo marito, di qualche anno più grande, lavora già e insiste perché lei si dedichi completamente alla casa, alla famiglia, ai figli che vogliono avere. Che senso ha tutta quella fatica, lo studio, il lavoro, se il loro progetto è la famiglia.
Marina si convince “Volevo essere una buona moglie, e poi una buona madre”, racconta. Si dedica alla casa, il primo figlio arriva presto. Marina viene da una famiglia benestante, con un piccolo patrimonio da gestire.
“Sono cose da uomini queste - la rassicura il marito - tu non devi preoccuparti di niente, ci penso io”. Il conto corrente di Marina, quindi, diventa di entrambi e la gestione della villa che era di proprietà della famiglia di lei, ora in affitto, passa nelle mani di lui.
Arriva il secondo figlio, Marina non controlla più niente, dal punto di vista economico, non sa quanto entra e quanto esce nel bilancio familiare, chiede a suo marito anche i soldi per la spesa.
Quando lui decide di lasciare il lavoro per aprire un’attività in proprio, però, la intesta a lei, “per ragioni fiscali”. Marina si fida ancora, firma assegni, cambiali, ipoteche, richieste di prestiti e di mutui.
A distanza di pochi anni, la donna si ritrova senza nessun bene intestato a sé, oberata dai debiti e inseguita dai creditori, con suo marito che le dà la colpa del disastro economico della famiglia.
Solo allora Marina si rende conto che deve chiedere aiuto. Da quella richiesta di aiuto sono passati quasi 15 anni. Marina ne compie 50 il prossimo anno, dopo la separazione ha cercato un lavoro e ha ritrovato l’autonomia finanziaria.
Di storie come questa, le associazioni e i centri che lavorano con le donne vittime di violenza ne hanno raccolte molte negli ultimi anni. Ma quella che ormai viene ufficialmente chiamata violenza economica è un fenomeno ancora tutto da studiare e da interpretare. A partire dai numeri.
Quante sono, chi sono
Se siamo abituati a ragionare partendo dai numeri, quando parliamo di violenza domestica in Italia ci scontriamo col fatto che di numeri certi e confrontabili, di statistiche sistematiche e ufficiali non ce ne sono a sufficienza.
Il che rende difficile, per esempio, anche solo la gestione delle risorse economiche destinate alla causa oltre che l’implementazione di misure mirate ed efficaci di contrasto e prevenzione. Se parliamo poi di violenza economica, la misurazione è ancora più complicata.
I numeri
(Fonte: associazione D.i.Re)
Le violenze subite e la frequenza
Periodo 1° gennaio 2019 – 30 ottobre 2020. Valori percentuali – per 100 violenze dello stesso tipo (Fonte: Dpo -PdCM /gestore del servizio 1522)
Secondo il termometro di Dire, l’associazione che raccoglie oltre 80 centri anti violenza in tutta Italia, le donne che vengono accolte nei centri oltre a denunciare casi di violenza psicologica (per il 79%), fisica (al 61%), sono vittime anche di violenza economica (al 34%).
Il fatto è, spiegano, che si tratta di un fenomeno di cui le donne hanno ancora una conoscenza scarsa, si tratta di una forma di violenza subdola e difficile da riconoscere, quindi il sommerso probabilmente riguarda una percentuale ben maggiore, visto che le donne ricorrono ai centri anti violenza o alle vie legali quando si trovano a subire forme di violenza più eclatanti.
É interessante notare che la violenza economica è trasversale: è indipendente dalle fasce di reddito, per esempio, così come dalla classe sociale di appartenenza. Ne sono vittime, allo stesso modo, casalinghe e professioniste e riguarda una fascia d’età compresa principalmente tra i 40 e i 60 anni.
L’identikit è quello stilato dallo sportello Miaeconomica dell’associazione Pangea, dedicato proprio alle donne vittime di violenza economica. Da ottobre 2018 a settembre 2020, lo sportello ha preso in carico 94 donne. Solo 6 sono risultate autonome nei redditi e ben 88 erano totalmente dipendenti economicamente dal partner violento. Tutte subivano forme di violenza multiple in ambito domestico.
Audio / Simona Lanzoni - Pangea Onlus
“Come ci si trova incastrate nella trappola della violenza economica?”
Di che parliamo, quando diciamo “violenza economica”
Non se ne parla ancora molto e si conosce poco, ma la violenza economica è già menzionata tra le forme di violenza all’art.3 della Convenzione di Istanbul del 2011, cioè la Convenzione che il Consiglio europeo ha approvato nel 2011 per combattere la violenza di genere, di fatto il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sul tema.
Nella Convenzione, la violenza economica si riferisce “ad atti di controllo e monitoraggio del comportamento di una donna in termini di uso e distribuzione del denaro, con la costante minaccia di negare risorse economiche, ovvero attraverso un’esposizione debitoria, o ancora impedendole di avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale e di utilizzare le proprie risorse secondo la sua volontà”.
In pratica, si realizza attraverso: l’impedimento nell’acquisizione delle risorse, l’impedimento all’accesso alle risorse disponibili, il consumo delle risorse della vittima”.
Per fare qualche esempio concreto, in contesti che poi possono sfociare in vera e propria violenza domestica, succede spesso che il partner costringa la compagna a scegliere tra famiglia e lavoro, spingendola ad abbandonare o non cercare l’autonomia finanziaria.
In questo modo, il compagno può tenere la donna costantemente sotto il ricatto del denaro e aumentare così il controllo su di lei. In altri casi, accade che la donna non abbia accesso alle finanze familiari: quando il compagno la tiene lontana da investimenti e decisioni importanti oppure non le consente di avere un conto corrente proprio. E ancora: c’è il caso dei due partner che hanno un conto co-intestato, gestito però solo dall’uomo.
Un secondo modo di esercitare la violenza economica è quello di impedire l’utilizzo delle risorse disponibili per la famiglia. La donna, cioè, non solo non può gestire le finanze familiari ma non è neanche consapevole della reale situazione economica, non sa quali sono le entrate e le uscite, per esempio.
É l’uomo, infatti, che gestisce tutte le finanze familiari ed elargisce alla compagna solo i soldi per la spesa e le prime necessità, talvolta in misura inadeguata, magari facendola pesare come una concessione.
In altri casi, sempre raccolti dalle associazioni che affrontano questo fenomeno, il partner gestisce tutti gli acquisti in prima persona, non consentendo alla donna nemmeno di fare la spesa, a volte negandole anche il minimo sostentamento per la famiglia e le esigenze primarie di casa e salute.
Un’ulteriore fattispecie che è stata individuata si verifica quando il partner fa indebitare la vittima o ne dilapida il patrimonio familiare. Solo per fare qualche esempio, l’uomo fa firmare alla donna documenti non chiari che si rivelano delle truffe vere e proprie; la costringe o convince a intraprendere investimenti rischiosi a suo nome; fa indebitare la compagna con la promessa di progetti fumosi o per acquistare beni che interessano solo a lui, spesso intestandoseli direttamente.
Il caso della separazione
Una situazione particolare, che vale la pena considerare con attenzione, è quella che vede la violenza economica consumarsi anche in una seconda fase, fuori dalle mura domestiche, quando cioè la donna decide di avviare un percorso di denuncia e/o di separazione, magari proprio per atti di violenza.
Ecco che qui il denaro non è solo arma di ricatto, ma viene spesso usato proprio come arma di vendetta contro la donna che ha trovato la forza di denunciare o di separarsi.
A volte accade che il partner, in vista della separazione, tagli ogni accesso della donna al budget familiare oppure prosciughi il conto corrente comune. Si riscontrano anche vari escamotage utilizzati dal marito o compagno per non pagare o pagare minori assegni di mantenimento ai figli.
L'uomo passa, ad esempio, improvvisamente da dipendente full time al part time oppure evade il fisco pur di apparire nullatenente o quasi.
In questo modo si crea quella spirale che si chiama rivittimizzazione secondaria: la donna cioè, già vittima di violenza domestica, diventa nuovamente vittima (in questo caso con i soldi che diventano l’arma) una volta avviato il percorso di denuncia, senza ricevere adeguata protezione in ambito giudiziario.
Audio / Fabrizio Filice – Gip al Tribunale di Vercelli
“Come ci si trova incastrate nella trappola della violenza economica?”
Se un reddito può significare libertà
Il problema dell’autonomia economica per sostenere le donne vittime di violenza è arrivato anche all’ordine del giorno dell’agenda politica. Nel Decreto rilancio del 19 maggio 2020 (art. 105 bis), è stato potenziato con altri 3 milioni di euro il Fondo per le politiche relative alle pari opportunità: per le donne vittime di violenza e in stato di povertà viene assicurato un reddito di libertà, proprio per permettere la loro emancipazione anche economica.
A muoversi in questa direzione ci sono anche le Regioni, Sardegna e Lazio fra tutte. La prima a dotarsi di una misura di sostegno economico per le donne vittime di violenza è stata la Regione Sardegna, con una legge del 2018, finanziata quest’anno con 300mila euro.
Il provvedimento viene definito un “patto tra la Regione e le donne vittime di violenza in condizioni di povertà materiale” e prevede un contributo mensile di 780 euro per un periodo da uno a tre anni.
Se ci sono figli minori o condizioni di svantaggio ulteriore o disabilità, il contributo può aumentare. Il tutto, con la collaborazione dei comuni e dei centri anti violenza sul territorio, per costruire un piano personalizzato che porti la donna vittima di violenza all’emancipazione, sua e dei suoi figli.
Nel piano, sono anche previsti gli aiuti per quelle donne costrette a cambiare città e per quelle che hanno bisogno di un periodo di affiancamento e formazione per garantirsi la possibilità di intraprendere un nuovo percorso lavorativo.
L’altro esempio virtuoso è quello della Regione Lazio, che ha istituito il reddito di libertà nel 2019, finanziandolo con 750.000 euro, e punta proprio a sostenere le donne vittime di violenza, in uscita dalle case rifugio, E nella fase di conquista dell’autonomia abitativa e del percorso scolastico dei figli, in quel momento in cui le donne possono ripartire da zero per ricostruire la propria vita e la propria autonomia.
Le radici: i buchi neri dell’Italia delle donne
Vale la pena andare più a fondo, per capire dove la violenza economica affonda le sue radici. Se il fattore culturale, quello di una società ancora fortemente patriarcale, è il nodo centrale da cui nasce la violenza contro le donne (e quindi anche la violenza economica), è anche lo stesso nodo che produce una serie di distorsioni sul fronte economico, familiare e del lavoro che, a loro volta, influiscono direttamente sulla fragilità economica delle donne che si trovano così più facilmente ad essere vittime di questo tipo di subdola sopraffazione.
La situazione delle donne in Italia
(Fonte: Eige, Gender Equality Index)
Un mercato del lavoro non ancora paritario, né in termini di salari né di posti di lavoro, la cura della famiglia e delle persone fragili ancora delegata in prevalenza alle donne, le conseguenti difficoltà nella carriera e nella gestione del proprio lavoro, sono tutti tasti dolenti della situazione femminile in Italia che le statistiche ci hanno abituato a vedere.
Partiamo dal mondo del lavoro: se ci confrontiamo con l’Europa, vediamo che l’Italia è ultima per tasso di occupazione femminile, con un numero inchiodato sulla soglia del 50% a fronte di oltre il 68% di quella maschile. Un dato destinato a peggiorare ulteriormente con la pandemia, con il gap che si allarga ancora e si avvicina al 20 per cento.
Donne e lavoro, l’Italia all’ultimo posto in Europa
(Fonte: Eige)
Tasso di occupazione, disoccupazione e inattività
(Fonte: Istat)
Donne e lavoro, il confronto europeo
(Fonte: Eige)
Perché, vale la pena ricordarlo, l’emergenza Covid-19 sta allargando questa forbice di disparità in maniera preoccupante. Non solo perché nella fase di lockdown gli studi hanno mostrato che sono state le donne a subire il carico maggiore di lavoro extra in casa e della gestione dei figli e della Dad con le scuole chiuse, ma anche perché la fragilità lavorativa delle donne (maggior numero di part-time, stipendi più bassi e via dicendo) fa sì che saranno proprio questi i posti di lavoro maggiormente a rischio nei prossimi mesi.
E non ce n’è bisogno: il gap occupazionale nella fascia 25-49 anni è del 74,3% tra donne con figli e senza figli, per avere un’idea. Le donne, inoltre, sono più propense ad accettare lavori meno qualificanti (o a rinunciare del tutto al lavoro) per occuparsi del lavoro di cura non retribuito.
Se uno non vale uno: il gender pay gap
La bassa qualità del lavoro femminile incide ovviamente anche sulla retribuzione: nonostante il 26,5% delle donne sia sovra-istruita per il tipo di impiego svolto, è alta la percentuale di lavori con livelli retributivi bassi (11,5%). Il 40% delle donne è occupato in tre macro settori: commercio, sanità e assistenza sociale e istruzione.
Le donne in part-time sono il 33% circa, part-time involontario nel 60,8% dei casi.
La conseguenza di questa situazione è che lo stipendio medio femminile in Italia è tra i più bassi in Europa ed è inferiore di 1/5 rispetto a quello dei colleghi uomini (il 18% circa). Il confronto in valore assoluto fa vedere come se, di fatto, le donne lavorassero un mese in meno degli uomini, sul fronte dello stipendio.
Il che vuol dire, ancora una volta, in un momento eccezionale come quello della pandemia (che ha moltiplicato le necessità di cura, lo togliere per non appesantire), che se in famiglia si deve rinunciare a uno stipendio sarà molto probabilmente quello della donna a essere sacrificato.
Le differenze salariali in Europa
(Fonte: Eurostat)
Le donne lavorano di più, dove non paga
Oltre a lavorare un mese senza essere pagata, nel confronto con lo stipendio del partner, la donna in Italia ha il carico di lavoro di cura che pesa come una zavorra. In Italia le donne svolgono ogni giorno 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno, mentre gli uomini un’ora e 48 minuti.
In sostanza, le donne si fanno carico del 74% del lavoro totale non retribuito di assistenza e cura.
Peggio di noi solo Albania, Armenia, Portogallo e Turchia. Nella giornata di lavoro media di una donna, se si somma il tempo di lavoro retribuito con quello non retribuito di assistenza e cura, la giornata lavorativa di una donna italiana dura in media 6 ore e 48 minuti, quella degli uomini 5 ore e 31 minuti, con le donne che hanno meno tempo a disposizione rispetto agli uomini.
Le donne che svolgono i lavori di cura
(Fonte: ILO)
I soldi, cose da uomini
Il lavoro che manca (o che non si cerca, o a cui si rinuncia) è una parte centrale del contesto che favorisce la violenza economica. Oltre a favorire l’isolamento della donna vittima di violenza, crea anche quella fragilità economica che rende più difficile l’emancipazione.
In questo, ha un ruolo fondamentale anche l’atteggiamento delle donne rispetto alla gestione del denaro, personale e familiare. E, anche qui, la cultura riveste un ruolo centrale.
Una recente indagine del Museo del Risparmio mostra per esempio che quasi il 14% delle donne non possiede alcun conto bancario a fronte di poco meno del 10% degli uomini.
Le donne, poi, conoscono meno i concetti di base dell’economia, si occupano con meno frequenza della gestione e degli investimenti. Sempre secondo la stessa indagine, quando lavorano, le donne risentono di peggiori condizioni contrattuali (tra le occupate il 68.6% è a tempo indeterminato a fronte del 73.3% degli uomini) e il 45% delle donne intervistate guadagna meno del proprio partner, dato che scende al 19,7% per gli uomini.
Le donne e il denaro
(Fonte: “Capacità di Sopportazione e di Reazione degli Italiani di fronte alla pandemia” a cura del Museo del Risparmio di Intesa Sanpaolo ed Episteme)
Insomma, le donne restano un passo indietro quando si parla di soldi come se, davvero, la gestione economica fosse una cosa da uomini e come se i soldi non avessero a che fare con l’autonomia personale.
Il Rapporto della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane mostra che solo il 26% delle donne è “decisore finanziario”, mentre il 79% condivide le scelte con il partner.
Difficile non pensare che alla base di questa situazione non ci siano ragioni culturali, che alimentano la disparità. Anche perché le donne, dice sempre il Rapporto Consob, hanno conoscenze finanziarie simili a quelle del partner ma hanno meno fiducia nelle proprie capacità di gestione delle finanze.
Le donne mostrano maggiore ansia finanziaria, minore avversione al rischio e maggiore avversione alle perdite. Hanno, in generale, minore fiducia nella gestione delle finanze e nel raggiungimento degli obiettivi finanziari.
É l’educazione, quella che manca
Dall’educazione finanziaria a una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie capacità e possibilità. Il contesto della violenza domestica mina l’autostima e la fiducia, per questo bisogna agire sulle leve delle conoscenze ma anche della stima di sé per contrastarla.
Audio / Magda Bianco- Banca d'Italia
“L'educazione finanziaria come strumento contro la violenza economica”
L’educazione finanziaria parte da qui. Dalla consapevolezza dei propri diritti, delle proprie possibilità, del proprio ruolo. La violenza economica è forse la forma più subdola di violenza, che punta a mantenere il controllo della donna, togliendole la possibilità pratica e concreta di cercare una via d’uscita dalla violenza.
Per questo l’educazione alla gestione delle finanze, la consapevolezza dell’importanza della propria autonomia finanziaria sono leve fondamentali da azionare, sin dalla scuola, affinché migliorino concretamente le competenze e l’autoefficacia delle donne.
Un lavoro di empowerment e di rafforzamento che diventa uno degli aspetti importanti per garantire alle donne vittime di violenza economica una via d’uscita. E un inizio di una nuova vita.