Bitcoin brucia l’energia di un intero Paese: ecco quanto e perché consuma
Musk accusa: «Un pericolo per l’ambiente». E il mercato crolla. Il meccanismo di certificazione è molto energivoro. Ma ci sono soluzioni alternative
Musk accusa: «Un pericolo per l’ambiente». E il mercato crolla. Il meccanismo di certificazione è molto energivoro. Ma ci sono soluzioni alternative
A rallentare il consumo energetico del bitcoin è intervenuto la caduta dei prezzi, quasi dimezzati rispetto al picco di 65mila dollari, e il colpo di freno imposto alle autorità cinesi alle operazioni di mining in tutto il territorio.
Ma non c'è dubbio che le criptovalute siano un comparto altamente energivoro e che i consumi siano ad alta densità di fonti fossili, tanto che qualcuno ha lanciato l'allarme: il comparto rischia da solo di mettere ad alto rischio il raggiungimento degli Accordi di Parigi in termini di contenimento delle emissioni.
«Le criptovalute rappresentano una buona idea sotto diversi profili e crediamo che abbiano un futuro promettente, ma questo non può essere perseguito a spese dell'ambiente». Le parole di Elon Musk che hanno provocato il primo crollo delle quotazioni del bitcoin hanno messo il dito nella piaga, ma hanno sorpreso, perché la sua Tesla conferma la scommessa mantenendo a riserva 1,5 miliardi di dollari in bitcoin.
E soprattutto perché era impensabile che l'eclettico innovatore potesse ignorare il carattere energivoro delle valute digitali. Forse si è reso conto che il suo appoggio a bitcoin mal si conciliava con l'immagine di sostenibilità creata attorno alla sua scommessa sulla mobilità sostenibile e sulle fonti rinnovabili.
Giusto a metà maggio Musk ha incontrato i grandi miners nordamericani per convincerli a battere una strada di maggior sostenibilità per la loro attività, da affrontare insieme.
Valute altamente energivore
Difficile fare calcoli precisi. Ma si stima che il consumo energetico del solo bitcoin sia più o meno pari a quello di un medio Paese europeo. Il Bitcoin electricity consumption index dell'Università di Cambridge calcola che la criptovaluta necessiti di oltre 133 terawattora di elettricità l'anno, più di un paese come la Svezia, che ha un consumo annuo di poco meno di 132 TWh.
Difficile confrontare questa cifra con il fabbisogno energetico del sistema internazionale di pagamenti, visto che bitcoin si candida a essere il fulcro di un ordine finanziario alternativo. La Banca d'Italia ha recentemente stimato che Tips, il sistema di pagamenti di Eurozona, abbia un'impronta ambientale 40mila volta inferiore al bitcoin.
Complicato anche valutare l'effettiva composizione delle fonti energetiche, ma alcuni indizi portano ad appesantire l'impronta ambientale delle cripto.
Anche se la dominanza sta diminuendo, si stima che due terzi dei bitcoin in circolazione siano stati “minati” da server cinesi, a loro volta altamente dipendenti da energia prodotta a basso costo da carbone, attorno al 60% del totale.
Il 12 maggio l'hashrate, indice della capacità computazionale, ha toccato un picco sopra i 180 Ehash/s, ma parallelamente la componente cinese ha iniziato a scendere dal 65% del massimo e continua a calare in questi giorni dopo che Pechino ha frenato l'attività di mining. Mentre quella americana cresce dall'11% e anche il Canada sta aumentando la sua quota: entrambi fanno leva su una forte produzione idroelettrica.
Perché bitcoin consuma così tanto?
I consumi aumentano proporzionalmente con le quotazioni. Lo scenario più pessimistico delineato da Cambridge si spinge a stimare un consumo di 500TWh l'anno nei periodi più caldi della scorsa primavera. Per avere un'idea la Gran Bretagna si ferma attorno a 300TWh. Insomma più è alta la quotazione e più energia richiede.
Perché? Il forte consumo di energia proviene dal complesso sistema di certificazione delle transazioni delle criptovalute maggiori. Il bitcoin è una valuta che permette transazioni che evitano qualsiasi tipo di inetrmediario bancario: per verificare la veridicità della transazione subentra una gara per risolvere un complesso quesito crittografico che richiede tentativi per indovinare la giusta composizione di numeri e lettere che fornisca la soluzione. Il primo che riesce a trovarla certifica l'aggancio del blocco alla blockchain con il conseguente compenso in bitcoin. Un'operazione che avviene ogni dieci minuti e che viene ricompensata con un gruzzoletto di 6,25 bitcoin.
È evidente che più vale la criptovaluta più i miners saranno disposti a investire in capacità di calcolo per risolvere il problema. Senza preoccuparsi più di tanto da dove provenga l'energia utilizzata. C'è chi sostiene che il 75% dei miners cinesi utilizzi energia idroelettrica, ma è difficile valutare. Il meccanismo di certificazione dei miners si definisce come “proof of work”: è richiesto un lavoro specifico, la soluzione del quesito, per garantire l'affidabilità del sistema senza intermediari e l'impossibilità di poter modificare le transazioni già certificate dalla blockchain.
Le alternative possibili
Come per qualsiasi infrastruttura che utilizzi server e capacità di calcolo la soluzione più immediata sarebbe l'utilizzo di fonti rinnovabili, come già avviene nel mondo in espansione del cloud computing. Anche per le critpovalute c'è chi propone che si debba certificare l'energia per il mining, anche se questo potrebbe portare a un doppio sistema, una doppia blockchain a seconda dell'energia utilizzata. Di fatto già oggi le grandi farm di mining si vanno concentrando in luoghi tendenzialmente più freddi, per agevolare il raffreddamento naturale delle macchine, e vicini a fonti rinnovabili, prevalentemente idroelettrici.
Diversi studi hanno mostrato che è in aumento la quota di elettricità che si origina da fonti rinnovabili, con stime molto variabili che vanno dal 20 al 70%. Certo l'attività di mining prosegue in continua, notte e giorno, e quindi risolve il problema dell'accumulo di energia rinnovabile, contribuendo a una maggior efficienza. Dall'altra parte la concorrenza sui costi spinge a utilizzare le fonti più convenienti, che non sempre sono quelle rinnovabili.
Una soluzione alternativa che si sta facendo strada è quella di una forma di consenso alternativa al “proof of work”, che sia meno energivora. In questo senso alcune blockchain utilizzano la “proof of stake”: un processo complesso che prevede una certificazione a maggioranza da parte di certificatori estratti a sorte tra quelli disposti a depositare le proprie criptovalute come collaterale. E che in cambio ricevono comunque una ricompensa. Senza però consumare energia.