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Così i giovani cambieranno i consumi alimentari (e l’agricoltura)

«Dal campo alla tavola» è la strategia agroalimentare nell’ambito del Green Deal europeo che prevede un finanziamento di 20 miliardi l’anno. Le nuove generazioni hanno un ruolo importante

di Giorgio dell’Orefice ed Emiliano Sgambato

Così i giovani cambieranno i consumi alimentari (e l’agricoltura)
(ShutterStock)

«Dal campo alla tavola» è la strategia agroalimentare nell’ambito del Green Deal europeo che prevede un finanziamento di 20 miliardi l’anno. Le nuove generazioni hanno un ruolo importante

La consapevolezza che le scelte in campo agroalimentare siano legate all’equilibrio ecologico del nostro pianeta e alla necessità di uno sviluppo sostenibile dell’agricoltura non sono più, ormai da tempo, concetti appannaggio di poche avanguardie.

Farm to Fork” – “dal campo alla tavola” - è la strategia agroalimentare nell’ambito del Green Deal europeo che prevede un finanziamento di 20 miliardi l’anno tra fondi Ue, nazionali e privati, fino al 2030. Gli obiettivi? Incrementare del 25% le superfici coltivate a biologico (dall’8% attuale, ma in Italia si sfiora già il 16%); estendere l’ambito di applicazione dell’etichetta di origine degli alimenti; dimezzare l’uso dei fitofarmaci nei campi e degli antibiotici negli allevamenti; raggiungere una quota di almeno il 30% delle aree rurali e marine europee protette, trasformare il 10% delle superfici agricole in aree ad alta biodiversità.

Fondamentale in questo contesto è il ruolo delle nuove generazioni che nei prossimi anni avranno la responsabilità di governare i processi di sviluppo ed effettuare scelte di consumo più consapevoli. Ma se già oggi la “Generation Greta” ha dimostrato di essere in grado di indirizzare le scelte delle famiglie e influenzare le decisioni politiche in campo ambientale, molta strada c’è ancora da fare per consolidare, anche tra i giovani, la consapevolezza del legame tra alimentazione, produzione, filiera, distribuzione e, appunto, sostenibilità.

Ai consumi del futuro serve più educazione

Da un’indagine realizzata da Ipsos per Fondazione Barilla emerge come il 40% dei ragazzi italiani under 27 ha familiarità con il concetto di sostenibilità, ma solo il 9% la associa al cibo (contro il 69% che la lega al concetto di ambiente). Più della metà non conosce l’Agenda 2030 (i 17 obiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile). Inoltre solo 2 giovani su 5 seguono la dieta Mediterranea. I nostri sistemi alimentari (dal campo alla tavola) sono invece strettamente connessi all’ambiente – sostiene la Fondazione – “contribuendo fino al 37% delle emissioni di gas serra globali”.

“La ricerca è del 2019, ma sono dati ancora molto attuali. Lasciano sorpresi perché spesso si dà per scontata una più alta sensibilità dei giovani verso questi temi. E se in genere è aumentata l’attenzione su inquinamento e lotta allo spreco, non si riesce a cogliere lo stretto legame con il cibo, inteso anche come produzione, distribuzione e consumo”, commenta Sonia Massari, ricercatrice della Fondazione Barilla, che aggiunge: “Il tema dell’alimentazione sana, equa e sostenibile è un elemento chiave per educare alla cittadinanza globale. Il cibo infatti può essere utilizzato per raccontare i metodi di gestione delle risorse del nostro Pianeta, le criticità del sistema alimentare e i suoi effetti sull’ambiente, ma è utile anche per parlare di diversità culturali e appartenenza. Occorre quindi investire sulle nuove generazioni e sulle figure chiave per la formazione: gli insegnanti e gli educatori”.

Per questo è nato, grazie a un protocollo d'intesa con il Ministero dell'Istruzione, il programma “Noi, il cibo, il nostro Pianeta”, finalizzato all’aggiornamento dei docenti. In due anni il programma ha coinvolto circa 8.500 docenti per un totale di 6mila scuole, 17 mila classi e oltre 425mila studenti.

Alcuni sondaggi condotti nel 2020, tuttavia, dimostrano come l’attenzione alla sostenibilità alimentare sia comunque un trend in crescita tra i giovani, sollecitato anche dalle istanze di sicurezza emerse durante l’emergenza Covid. Secondo una ricerca di Iri per Unionfood, i due terzi degli under 35 (compatibilmente con la loro quota di indipendenza economica e capacità di spesa) nell’anno della pandemia hanno consumato cibi più salutari, uno su quattro ha consumato più prodotti bio rispetto al 2019, e uno su tre ha prestato più attenzione alle riciclabilità delle confezioni.

“I giovani fino a 34 anni hanno sperimentato in misura maggiore rispetto alle altre fasce d’età un’alimentazione più attenta e salutista - commenta Francesca Fumagalli di Iri -. L’epidemia è quindi stata una sorta di pausa di riflessione per questo target, che ha avuto come effetto quello di favorire la scoperta e la sperimentazione di nuovi prodotti e nuove marche. Insieme ad un consumo più orientato al benessere fisico, i Millennials e i Centennials dichiarano una maggiore attenzione verso la sostenibilità ambientale rispetto al passato”.

Il peso sostenibile dell’etichetta

Così anche l’offerta cambia, come dimostrano i dati raccolti dall’Osservatorio Immagino Gs1 che monitora come si evolvono i consumi analizzando i contenuti informativi presenti sulle confezioni, secondo cui i prodotti con “claim” green sono cresciuti in media del 5,5% in un anno. Incrementi che arrivano dopo quelli degli anni passati, e ogni azienda ormai non può fare a meno di comunicare un qualche aspetto del suo impegno per la sostenibilità.

Più nel dettaglio, i prodotti che hanno messo in evidenza la “gestione sostenibile delle risorse” hanno guadagnato il 5,2% raggiungendo vendite per 4,7 miliardi; l’area a tematica “agricoltura e allevamenti sostenibili” è al secondo posto con un valore di 2,7 miliardi (+6,1%); la “responsabilità sociale” è stata indicata da 5.099 prodotti, producendo 2,5 miliardi di valore (+7,1%).

Meno “pesante” in valore ma significativo per i messaggi che mette in evidenza è la voce sul rispetto degli animali (981 per 433mila euro in valore) con claim come “friend of the sea” e “cruelty free”. Proprio sugli allevamenti e sulla carne si gioca una delle partite più importanti e, per molti versi, più controverse.

Tra carne vegetale e allevamenti (meno) intensivi

Seppur si tratti ancora di una nicchia cresce il consumo di “carne vegetale”, di cui i produttori vantano la diminuzione dell’impatto ambientale rispetto agli alimenti proteici di origine animale (non solo fake meat, aumentano anche i cibi che imitano gusto e aspetto di formaggi e pesce) oltre che puntare il dito sugli effetti negativi sulla salute imputati all’eccessivo consumo di carne rossa (quella vera).

Secondo una stima diffusa da a Boston Counsulting Group nei prossimi 10 anni i prodotti alternativi a quelli di origine animale passeranno da 13 a 97 milioni di tonnellate l'anno, sostituendo l'11% degli acquisti attuali e raggiungendo un fatturato globale di 290 miliardi di dollari nel 2035. Ma è anche vero che la “fake meat” difficilmente si concilia con l’ideale di prodotto biologico e a chilometri zero che caratterizza il mood della sostenibilità dei giovani nell’approccio al cibo.

Gli allevatori rispondono mettendo in campo misure che diminuiscono l’impatto ambientale, già più basso rispetto a molte altre parti del mondo. Nelle scorse settimane allevatori e trasformatori di sette Paesi (Belgio, Francia, Spagna, Germania, Portogallo, Polonia e Italia) hanno lanciato un video per denunciare i “nove paradossi della strategia Ue” sulla carne. Critiche che hanno toccato temi che vanno dall’impatto ambientale, alle ripercussioni economiche (di un ridimensionamento della zootecnia) agli aspetti ambientali e al benessere animale.

Il settore zootecnico europeo – secondo l’associazione Carni sostenibili tra i promotori dell’iniziativa – è responsabile del 7,2% delle emissioni di gas serra (in Italia si scende al 5,6%) contro invece il 14,5% della media mondiale. Tagliare la produzione europea – questa la tesi di fondo e anche il paradosso più evidente – non porterà a un immediato ridimensionamento dei consumi di carne nella Ue e pertanto sarà necessario nel medio periodo aumentare l’import di carne da aree del mondo nelle quali si produce con maggiori emissioni di CO2.

Giovani agricoltori bio e hi-tech

Da un lato il contrasto agli allevamenti intensivi, allo spreco di cibo, all’eccessivo utilizzo di plastiche. Dall’altro la crescita del biologico e dell’agricoltura 4.0, con il diffondersi dell’automazione avanzata nei campi e lo sviluppo di tecniche che limitano il consumo di suolo e che preservano acqua e altre risorse preziose (anche ad esempio attraverso vertical farm, aeronica e idroponica).

Sono le direttrici che stanno indirizzando le scelte di sviluppo sostenibile in campo agroalimentare e che vedono protagonisti i giovani agricoltori, in aumento del 14% rispetto a cinque anni fa (stima Coldiretti).

Secondo l’ultimo rapporto Biobank - che evidenzia come le vendite bio in Italia siano cresciute del 118% negli ultimi 10 anni, raggiungendo 4,4 miliardi di giro d’affari - tra le nuove imprese biologiche è determinante l’azione di quelle condotte da giovani, che hanno “un elevato livello di istruzione in confronto al complesso”. Si tratta di “fattori che possono contribuire a spiegare il maggior grado di innovazione – spiega il report - espresso da un più alto ricorso agli strumenti elettronici nella conduzione aziendale (40% contro il 19% della media), l’adozione di software (12% contro 5%), e dall’uso del web per attività di comunicazione e commercializzazione (15% contro 5%)”.

Ma qual è lo stato di salute del biologico in Italia? Secondo gli ultimi dati di Assobio il biologico è cresciuto dell’1% nel primo trimestre 2021, consolidando l'incremento dei consumi di un anno fa quando ebbe punte del +20% tra marzo e aprile. Ma l’associazione sottolinea anche le “contraddizioni strutturali del mercato”: l'Italia vanta una delle maggiori quote nazionali di superficie agricola utilizzata a biologico in Europa (15,8%), ed è prima per export (2,6 miliardi), ma la spesa pro capite (pre-Covid) è di 60 euro all'anno, contro i 144 in Germania, 174 in Francia, 338 in Svizzera e 344 in Danimarca (dati Fibl & Ifoam).

Sul fronte dell’innovazione che la spinta sia robusta è testimoniato anche dai dati dell’Osservatorio Smart Agrifood di Politecnico di Milano e Università di Brescia. Anche durante la pandemia gli investimenti nelle nuove tecnologie in agricoltura sono aumentati del 20% raggiungendo un giro d’affari di 540 milioni di euro. Un risultato che è però inferiore al tasso di crescita registrato a livello mondiale (+76%).

Un quadro dal quale emerge come non solo i giovani imprenditori abbiano una maggiore propensione verso la produzione agricola sostenibile, ma anche come questa propensione vada di pari passo a modalità di conduzione aziendale più evolute. E forse il dato sull’approccio imprenditoriale da parte dei giovani agricoltori illustra ancora meglio la loro attenzione alla sostenibilità dell’approccio da consumatori.

Una strada intrapresa anche dal vino

La sostenibilità è un trend in crescita, infine, anche per il settore del vino. Secondo un’indagine effettuata da Wine Monitor di Nomisma per l’Alleanza delle cooperative italiane, gli “attributi green” ovvero marchio biologico e certificazione di sostenibilità insieme rappresentano la principale motivazione d’acquisto per il 9% dei consumatori (non è disponibile la distinzione per fasce d’età). E vengono subito dopo l’origine/marchio Doc-Docg (24%), il vitigno (17%), le promozioni (10%). Tra i consumatori che hanno acquistato un vino biologico/sostenibile ben il 36% si è detto disposto a spendere per un vino green fino al 5% in più. Il 32% si è detto pronto a pagare tra il 5 e il 10% in più, il 10% anche oltre il 10% in più.

Dall’indagine di Wine Monitor/Nomisma emergono anche alcuni punti deboli. Innanzitutto ben il 51% dei consumatori non sa distinguere un vino biologico da uno sostenibile mentre una quota del 43% dei consumatori ritiene che i vini green siano poco pubblicizzati o poco promossi presso la grande distribuzione o sui canali web.

Per l’agroalimentare sono dunque molte le sfide da cogliere per accelerare sul piano dell’ecosostenibilità: gli investimenti per diminuire l’impatto ambientale lungo tutta la filiera non possono prescindere dall’innovazione di prodotto e di processo, ma anche da un cambio di paradigma sulle abitudini quotidiane. Uno sforzo che potrà essere coronato solo con le capacità dei giovani - lavoratori e imprenditori di un domani molto prossimo - e la forza dei consumatori (non solo quelli del futuro) di spostare gli equilibri dell’economia.