Ridateci la natura: i giovani riscoprono turismo e sport «verdi»
In principio furono il climate change e Greta Thunberg, poi la pandemia: la green generation ha riscoperto l’amore per la dimensione outdoor, all’insegna di vacanze e sport più o meno estremi ma anche della microavventura
di Enrico Marro
In principio furono il climate change e Greta Thunberg, poi la pandemia: la green generation ha riscoperto l’amore per la dimensione outdoor, all’insegna di vacanze e sport più o meno estremi ma anche della microavventura
Dal trekking all’hiking, dal running al biking fino a sport più estremi: l’importante è restare immersi nel verde, alla ricerca di un rapporto più puro e “selvaggio” con l’ambiente. L’amore tra giovani e turismo sportivo outdoor non è certo una novità, ma negli ultimi anni sta vivendo una nuova età dell’oro.
A contribuire alla ricerca di un rapporto più autentico e avventuroso con la natura è stata prima l’onda lunga della generazione Greta, con una rinnovata coscienza ecologica contro il climate change, poi il desiderio di distanziamento sociale legato al coronavirus, magari unito a una bella mountain bike o trekking bike nuova acquistata con i bonus governativi dell’anno scorso.
Quasi 50 milioni di turisti outdoor
Sta di fatto che, come segnala l’Osservatorio del Turismo Outdoor, quest’estate nel nostro Paese tra 45 e i 49 milioni di viaggiatori (per il 55% italiani) sceglieranno strutture all'aria aperta per le proprie vacanze. Un megatrend in crescita costante, visto che appena tre anni fa non si arrivava a 40 milioni di presenze. Con un giro d’affari di tutto rispetto: nel 2018 sono stati toccati i quattro miliardi di euro.
Accanto ai più tradizionali trekking e biking, secondo l’Osservatorio si stanno facendo strada anche sport outdoor più arditi come il canyoning, l’human bunge slingshot (la fionda umana), il cliffhanger o lo slackline (camminare su una fettuccia come un funambolo), lo zorbing (rotolare in discesa dentro una sfera), il wolf howling (le passeggiate notturne per monitorare i lupi) fino a più amene e rilassanti camminate in compagnia di un lama.
Anche se l’andamento della pandemia non permette di avere certezze sui numeri, la tendenza dell’estate 2021 sarà sempre più quella delle lunghe passeggiate, del trekking in montagna o al mare, della ricerca di un contatto ravvicinato e autentico con la natura e la bellezza del territorio, lontano dal caos cittadino e dalla folla. Anche solo in un semplice campeggio.
Un mercato internazionale
Secondo Giorgio Ribaudo, direttore di Thrends, «la prevalenza di un mercato internazionale di prossimità (Germania, Austria, Svizzera, Francia, Belgio) rende il segmento outdoor particolarmente pronto a reagire a uno choc di domanda come quello attuale. La quasi assenza di intermediazione, l’accessibilità in auto e le formule molto flessibili di alloggio, inoltre, garantiscono al segmento la possibilità di un’impennata nelle prenotazioni, che riteniamo si concretizzi soprattutto a cavallo fra la metà di maggio e la metà di giugno».
Il boom della “microavventura”
Un capitolo a parte è quello rappresentato dal turismo d’avventura. Come nota uno studio pubblicato di recente da Susan Houge Mackenzie dell’Otago University in Nuova Zelanda e da Jasmine Goodnow della stiunitense Western Washington University (“Adventure in the Age of COVID-19: Embracing Microadventures and Locavism in a Post-Pandemic World”), i lockdown hanno fatto riscoprire un turismo iperlocale, ma che con una robusta dose di creatività riesce ad abbracciare la filosofia di fondo del viaggio d’avventura.
“L’avventura post-pandemica implica un approccio semplice, focalizzato sull’esperienza psicologica dell’avventura basata su una mobilità a misura d’uomo - scrivono le ricercatrici nel loro saggio - . L’enfasi è sulla semplicità, sullo sviluppo di abilità personali, sull’immersione nella natura, sulla curiosità e sull’interiorità personale, che facilitano il ritorno all’essenza stessa di avventura, sempre più perduta nel turismo di oggi”.
Una dimensione sicuramente più economica rispetto ai grandi viaggi pre-pandemia, anche per le attuali ristrettezze economiche di molte famiglie, ma autentica e a diretto contatto con la natura. Una filosofia nella quale l’avventura si costruisce grazie alle sfide (anche sportive) e all’incertezza tipica dello slow travel, per esempio affrontando lunghi percorsi a piedi. La nuova dimensione della “microavventura” potrebbe restare anche a pandemia finita, conclude la ricerca, per riscoprire una filosofia di turismo originale, sostenibile e low cost.
…e le abitudini reali di consumo
In effetti la sovrabbondanza di prodotti green, o presunti tali, ha alimentato anche le bufale e reso più complicato distinguere le aziende veramente sostenibili da quelle che finiscono, magari in buona fede, per proporre solo forme più sottili di green washing. Il risultato è che proprio i consumatori della Generation Z divengono, a volte, clienti di prodotti con impatti ambientali tutt’altro che misurati.
Da un lato i giovanissimi, a quanto emerge dalla ricerca Sant’Anna, tendono in quasi 4 casi su 10 a informarsi «spesso o molto spesso» sui prodotti che acquistano e in oltre il 33% dei casi scansionano il Qr code presente sui prodotti (sopra ai 24 anni si scende a poco meno del 19%).
Dall’altro la quota di under 24 che compra prodotti «a basso impatto» sia inferiore di sette punti percentuali rispetto a quella del resto della popolazione (circa il 77% contro l’85%), viaggiando su percentuali più basse anche nell’acquisto da aziende che offrano luoghi di lavoro sicuri e sani ai dipendenti.
A risultarne è una contraddizione che può essere colmata, dice Iraldo, con una consapevolezza maggiore e meno «manichea» rispetto all’impatto ambientale. Tanto più necessaria su un mercato dove i confini fra green e green washing tendono a sfumarsi anche agli occhi degli addetti ai lavori. Oggi quasi nessuna azienda avrebbe il coraggio di definirsi ostile o disinteressata all’ambiente.
Il problema, non solo per gli under 24, è avere gli strumenti per capire chi lo sia davvero. «Una volta la concorrenza si faceva tra chi diceva di essere green e non lo era oggi la concorrenza è fra i vari green e chi fa green washing – dice Iraldo - Il rischio per le generazioni di essere esposti a bufale è altissimo. Le aziende per parlare di green dovrebbero avere le spalle larghe e i giovani non sono sempre capaci di distinguere grande sensibilità e predisposizione».
Il peso della formazione
Lo strumento per difendersi dal green washing non può che essere la formazione. Ma quale? «Serve una migliore conoscenza scientifica per evitare uno scarto tra quello che si dice e il livello reale di sostenibilità dei prodotti» Matteo Colleoni, ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio e delegato alla sostenibilità dell’Università Bicocca, citando due fra i settori dove si concentrano più luoghi comuni: trasporti e materiali.
«Per fare un esempio, si dice che per rendere più sostenibili i trasporti bisogna superare i motori a combustione – dice - È vero, ma quante volte si dice che bisogna lavorare anche sui materiali per rendere i mezzi più leggeri? O ancora, quante volte sentiamo che bisogna “eliminare tutte le plastiche”?».
La buona notizia è che sta crescendo proprio la domanda di istruzione e formazione ad hoc, soprattutto a livello universitario. Con un legame diretto fra teoria e partecipazione diretta: «C’è un cambiamento fortissimo, forse il cambiamento più importante degli ultimi 10 anni – dice Colleoni - Viene esplicitato in una richiesta crescente degli studenti di fare parte della governance della sostenibilità accademica delegazione».
Ma l’aspetto più interessante, nota Colleoni, è che «si manifesta una relazione diretta fra il tema ambientale e la responsabilità individuale. E la stanno esplicitando in settori come raccolta differenziata, acquisto e consumi prodotti sostenibili e mobilità. Con risultati che vediamo effettivamente».