Imprese femminili alla sfida post-Covid
«È vero che gli ingegneri, spesso, possono essere un po’ rigidi e schematici, ma se al fatto di essere ingegneri aggiungi la creatività e la determinazione che hanno le donne… beh, non ti ferma più nessuno». Nemmeno una pandemia.
Chiara Rota ha 36 anni, una laurea in ingegneria gestionale, una bimba di quattro anni e un’azienda (My Cooking Box) che hanno mosso insieme i primi passi, nel 2016. È una delle oltre 1,3 milioni di imprenditrici del nostro Paese che, lentamente, con fatica, stanno cercando di sfondare il soffitto di cristallo.
L’idea parte da lontano: da quando Chiara, durante un’esperienza professionale negli Stati Uniti, si rende conto di quanto le ricette e gli ingredienti italiani siano apprezzati all’estero, ma non sempre accessibili.
L’Italia delle imprese al femminile
La scatola delle meraviglie
L’idea si rafforza negli anni in cui lavora nell’azienda di famiglia, a Bergamo, nel settore dell’automazione industriale.
«Mi capitava spesso di pranzare con clienti stranieri, entusiasti del cibo italiani, che, una volta tornati nel loro Paese, mi chiedevano consigli per riprodurre le nostre ricette».
Da qui l’intuizione di creare una scatola che contenesse tutto: ingredienti nella giusta dose e ricette firmate da chef. È il 2015 e, grazie a un programma della Camera di Commercio di Milano, viene invitata a presentare il suo progetto a Expo e poi vince il bando per entrare nell’incubatore dell’Università Bocconi.
Dopo due anni, My Cooking Box è pronta a partire e oggi, con un fatturato di 1,25 milioni di euro, dà lavoro a 25 persone. Vende online e offline, in Italia, in Europa e, da un anno, anche negli Stati Uniti.
Start Up: un gap da colmare
Bebè a bordo
Anche Duygu Sefa ha 36 anni e anche lei è ingegnere gestionale. Laureata in Turchia, si trasferisce nel 2007 per frequentare un master al Politecnico di Milano. È brava: trova subito lavoro in una grande azienda del nostro Paese e per dieci anni sembra destinata a una promettente carriera.
Nel 2017, però, arriva la prima figlia e, al rientro dalla maternità, Duygu si sente messa da parte e insoddisfatta. Intraprendente e battagliera, decide di mettersi in proprio, partendo da una propria personale esperienza: la difficoltà di viaggiare e spostarsi con un bimbo appena nato.
Decide perciò di lanciare Babonbo, un servizio per noleggiare attrezzature da viaggio per bebè. Segue un programma per lo sviluppo di iniziative imprenditoriali proposto dalla Silicon Valley e poi si iscrive a Mommypreneurs, un progetto internazionale, curato in Italia dal Polihub del Politecnico di Milano, che mira a supportare il reinserimento nel mercato del lavoro o l'avvio di attività imprenditoriali delle giovani donne inoccupate, in maternità o impegnate nella cura dei propri figli.
Dopo tre mesi di incubazione proprio all’interno del Polihub, Duygu a inizio 2020 è pronta a lanciare la sua start up, con un team di quattro persone operative (da remoto) da altrettanti angoli dell’Italia, e a diventare mamma per la seconda volta.
La pandemia ferma i viaggi in tutto il mondo, ma non il progetto di Duygu, che sposta (temporaneamente) il focus del progetto dal noleggio a breve termine a quello a lungo termine. Funziona.
Case vacanza per smartworkers
Determinazione, flessibilità e creatività. Ecco la marcia in più delle donne imprenditrici: sapersi rimettere in gioco. Anche Roberta D’Onofrio ha questo dono. Madre di tre bambini, aveva 44 anni quando il primo lockdown ha rapidamente svuotato il calendario di prenotazioni per i tre appartamenti romani che gestiva tramite Airbnb e che erano la sua fonte di reddito.
Senza lasciarsi abbattere, in meno di un mese Roberta si è reinventata da “Super Host” a imprenditrice, trasformando le sue case in alloggi per smartworkers in cerca di un luogo sicuro e tranquillo per lavorare, attrezzato e connesso.
La nuova piattaforma (bnbworkingspaces) oggi è diventata una start up iscritta al registro delle imprese e seguita dall’incubatore I3P del Politecnico di Torino. Sul sito sono presenti ormai oltre 100 “Smart Apartments” divisi in due categorie: quelli nelle città e quelli in luoghi di villeggiatura dove le persone possono continuare a lavorare e magari godersi un po’ di mare o natura nel tempo libero.
Il confronto
La lunga marcia delle imprenditrici
Non sono molte in Italia, Chiara, Duygu, Roberta e le loro sorelle. In un Paese in cui l’imprenditoria femminile è ancora limitata e per molti versi arretrata, rispetto al resto d’Europa, le start up femminili sono ancora meno: «Secondo i dati del Mise, nell’ultimo trimestre 2020 solo il 13,3% delle start up innovative ha una prevalenza femminile, contro il 22% delle imprese – spiega Massimiliano Vercellotti, partner di EY -, mentre la presenza di almeno un membro femminile nella compagine azionaria si attesta al 42,6%, contro il 47% delle società di capitali. Fare impresa per una donna è ancora oggi un percorso a ostacoli».
Un percorso che la crisi del Covid ha reso ancora più difficile: dopo sei anni di crescita costante, l’Osservatorio sull’imprenditoria femminile di Unioncamere e InfoCamere ha registrato nel 2020 la prima battuta di arresto: appena un -0,29%, pari a quasi 4mila attività in meno rispetto al 2019, e tuttavia un segnale in controtendenza che lascia l’amaro in bocca.
Anche perché, sottolinea l’Osservatorio, sono proprio le imprenditrici giovani quelle che hanno subito di più le conseguenze della pandemia. Oggi in Italia le imprese femminili sono oltre 1,3 milioni su un totale di 6 milioni. Meno di 154mila sono quelle giovanili.
Dove investono le donne
I settori: crescono le competenze in ambito Stem
I settori in cui tradizionalmente le donne sono più presenti restano commercio, turismo, assistenza alle persone e, tra le attività manifatturiere, il tessile. Proprio le attività più colpite dalla pandemia, si legge nell’Osservatorio.
Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito a una crescita costante delle ditte individuali e società di capitali guidate da donne nei comparti a «maggior contenuto di conoscenza» così come aumentano le imprenditrici con competenze in ambito Stem.
«Prima della crisi non stava andando male per le imprese femminili – conferma la professoressa Valentina Meliciani, docente di economia industriale all’Università Luiss di Roma -, almeno come tassi di crescita. Certo, parliamo sempre di percentuali molto basse, attorno al 20% sul totale. Tuttavia, negli ultimi cinque anni stavano aumentando più rapidamente rispetto a quelle maschili, così come, sul fronte della formazione, si sta restringendo il gap tra le laureate e i laureati in materie Stem».
Eppure, la pandemia sembra aver fatto venire in luce una sorta di debolezza strutturale dell’imprenditoria femminile: non tanto in termini di cessazioni (limitate dagli interventi del governo, che per ora hanno funzionato), quanto in termini di natalità lorda: «C’è una differenza enorme nei tassi di natalità, a discapito delle attività femminili – osserva Meliciani – che dunque hanno risentito di più della crisi, rispetto a quelle maschili, su tutto il territorio nazionale.
E non è una questione solo settoriale: «I dati ci dicono che anche all’interno degli stessi comparti c’è uno svantaggio per imprese femminili – spiega la docente -. Ci sono degli elementi strutturali che frenano questo fenomeno e tra questi il più importante è l’accesso al credito».
L’impatto del Covid
Credit crunch: l’ostacolo più grande
Lo conferma l’Osservatorio Unioncamere dello scorso anno: «è basso il ricorso al credito bancario (solo il 20% delle imprese “rosa”), vuoi anche per un sentimento di scoraggiamento aspettandosi un rifiuto da parte della banca (8% nel caso femminile contro il 4% negli altri casi): e quando le imprese femminili chiedono credito, il credit crunch è maggiore. Sul totale dei casi in cui vi è un ricorso al credito bancario, per l’8% delle imprese “rosa” il credito erogato non è stato adeguato o la richiesta non è accolta, contro il 4% delle imprese in generale.
Ciò anche perché il sistema bancario chiede alle imprese femminili maggiori garanzie reali, di terzi, di solidità finanziaria e di crescita economica», si legge nel rapporto.
Secondo Ignazio Rocco, ceo e founder della Digital Lender Credimi, la ragione va ricercata più nelle caratteristiche strutturali dell’impresa femminile italiana, che non in una sorta di pregiudizio delle banche.
«Abbiamo voluto indagare il tema dello squilibrio nell’accesso credito attraverso un’indagine sul nostro istituto, che si occupa di finanziamenti a piccole e piccolissime imprese – spiega Rocco -. I dati dimostrato che il tasso di approvazione è identico a parità di caratteristiche delle imprese.
Tuttavia, in effetti questa percentuale risulta inferiore per le realtà a guida femminile, perché il grosso gap è che la presenza di queste aziende è più forte nei settori più poveri dell’economia».
L’istituto sta lavorando a un progetto che offra servizi aggiuntivi alle imprese femminili, soprattutto in termini di welfare e sta studiando anche la possibilità di creare dei plafond dedicati. Molte banche si stanno muovendo in questo senso.
Credit crunch
Risposta singola – In %
Sostegni all’imprenditoria femminile: la sfida del Recovery Plan
Sul fronte della politica, esistono diversi provvedimenti a sostegno dell’imprenditoria femminile.
Tra questi, la nuova Legge di Bilancio ha istituito un fondo d’investimento per incentivare le donne ad avviare attività imprenditoriali a partire da quest’anno, spiega Massimiliano Vercellotti: «Questo fondo ha una dotazione finanziaria di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021 e 2022 e verrà gestito attraverso un Comitato per le donne di impresa. Sono quindi previsti differenti forme di agevolazione tra cui contributi a fondo perduto, finanziamenti per le nuove start-up innovative e interventi specifici richiesti dalle imprese femminili».
Ma la vera sfida si giocherà con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), meglio noto come Ricovery Plan: «La bozza precedente conteneva alcune misure, ma secondo me manca una coerenza tra i vari strumenti - osserva Valentina Meliciani -. C’è un capitolo che riguarda la coesione, dedicato a donne e giovani, ma le azioni specifiche si esauriscono lì, mentre nelle sezioni dedicate alla transizione digitale e alla transizione verde, non c’è traccia di una valutazione dell’impatto di genere delle varie misure. Questa frammentazione rischia di ridurre l’efficacia dei provvedimenti stessi o addirittura di aumentare le differenze di genere. Eppure non possiamo fallire questa partita».