Il ghiacciaio del Careser, nel settore sud-orientale del gruppo Ortles-Cevedale, è il più studiato del nostro arco alpino. Le misure di bilancio di massa glaciale, che servono a valutarne l’evoluzione, sono iniziate nel 1967. Cominciò a farle Giorgio Zanon, glaciologo dell’Università di Padova. Partecipò alle ricerche anche Enel, perché le acque che scendono dal ghiacciaio alimentano il bacino artificiale del Careser, utilizzato dagli anni Trenta per la produzione di energia elettrica.
Dal 2002 le misure di bilancio sono coordinate da Luca Carturan, ricercatore dell’università di Padova (dipartimenti TeSAF e Geoscienze), glaciologo e membro del Comitato Glaciologico Italiano. Per la rivista Geografia Fisica e Dinamica Quaternaria, edita dal Comitato Glaciologico Italiano, Carturan si occupa annualmente di compilare i dati dei bilanci di massa sui ghiacciai italiani monitorati.
«Per misurare l’evoluzione dei ghiacciai esistono diversi metodi – spiega il ricercatore -. Alcuni sono indiretti, come ad esempio il rilevamento topografico della superficie mediante la topografia o i droni. Sul ghiacciao del Careser viene utilizzato soprattutto il metodo glaciologico diretto, dunque andiamo sul posto per misurare l’accumulo nevoso e la fusione di neve e ghiaccio, in diversi momenti dell’anno».
Anche in questa estate rovente, contraddistinta dal crollo di parte del ghiacciaio della Marmolada, Carturan e il gruppo di lavoro sui ghiacciai trentini composto dall’Ufficio Previsioni e Pianificazione della Provincia Autonoma di Trento, la Commissione Glaciologica della Società degli Alpinisti Tridentini, il Muse e l’Università degli Studi di Padova va avanti con le misurazioni. «La stagione estiva è ancora lunga ma, complice anche la forte scarsità di neve invernale, il 2022 sembra destinato a diventare il peggiore di tutta la serie storica».
Quella del Careser è la più lunga serie storica di bilancio di massa di un ghiacciaio in Italia. Un database unico per conoscere come rispondono i nostri ghiacciai ai cambiamenti climatici. La risposta più immediata è l’immagine che apre questo articolo. Mostra l’aspetto a facciata del ghiacciaio del Careser in una vecchia foto in bianco e nero scattata nell’agosto del 1933. Quella successiva fa vedere quello che rimaneva del ghiacciaio a metà settembre 2018.
In 86 anni ha perso l’86% della sua estensione. Si vede bene dalle immagini a seguire: è passata da 5,45 chilometri quadrati nel 1933 a 0.77 chilometri quadrati nel 2019. «La velocità con cui sta avvenendo è aumentata negli ultimi decenni – sottolinea Carturan -. Tra il 1933 e il 1959 il ghiacciaio perdeva in media lo 0.5% della superficie all’’anno. Dopo un periodo stazionario, dal 1980 ha iniziato a cedere il 2% all’anno, mentre nel periodo successivo al 2012 il tasso di perdita ha raggiunto l’8% annuo».
Tecnicamente il bilancio di massa è la differenza tra i guadagni (accumulo di neve) e le perdite (ablazione di neve e ghiaccio). Alla fine dell’estate per avere un bilancio in pareggio l’area di accumulo, dove permane parte della neve invernale, dovrebbe essere estesa su almeno il 60% del ghiacciaio. Se prevale l’accumulo, allora il ghiacciaio cresce in volume e si espande avanzando verso valle. Se prevale l’ablazione, allora il volume del ghiacciaio si riduce e la fronte si ritira verso monte.
«Negli ultimi tre decenni la linea di equilibrio, cioè il limite inferiore della neve residua invernale, si è collocata prevalentemente oltre la quota massima del ghiacciaio - commenta Carturan -. In particolare, oltre ad avere estati più lunghe e calde, sono diminuite molto le nevicate estive, che sono importanti per rallentare la fusione estiva sul ghiacciaio»
L’accumulo di neve in inverno invece è piuttosto stabile nel tempo, il che può sembrare sorprendente con temperature in ascesa, ma la spiegazione è che stiamo parlando di nevicate intorno ai 3000 metri di quota dove la temperatura permane tuttora sotto il limite necessario affinché le precipitazioni avvengano in forma solida. A quote inferiori, invece, l’innalzamento delle temperature sta rapidamente comportando una significativa diminuzione delle nevicate.
E così il Careser oggi è in fase di collassamento. «Il 90% di questo ghiacciaio si estende tra i 2.900 metri e i 3.100 ed è pressoché piatto. Questo lo rende molto sensibile alle variazioni climatiche e non gli consente di ritirarsi a quote più elevate. Cosa che invece riesce a fare un altro ghiacciaio che stiamo studiando, quello de La Mare, sempre nel gruppo Ortles-Cevedale, che arriva a quasi a 3.800 ed è in una fase di ‘ritiro attivo’. Significa che, avendo porzioni della sua superficie a quote molto elevate, il ghiacciaio è ancora in grado di adeguare la sua forma al mutamento del clima, perdendo le aree a quota più bassa e mantenendo quelle a quota più alta» dice Carturan.
Sul ghiacciaio de La Mare la serie storica di bilancio di massa è iniziata nel 2003 e il bilancio è sempre stato negativo tranne nel 2014, che arrivava dopo un 2013 quasi in pareggio. «Su questo ghiacciaio succede di osservare periodi di 2-3 anni in cui il bilancio diventa meno negativo oppure addirittura in pareggio o positivo. Tuttavia questi brevi periodi si sono rivelati essere passeggeri e sono stati seguiti da anni eccezionalmente negativi, come si sta rivelando il 2022» aggiunge il ricercatore.
Vale per tutti i ghiacciai dell’arco alpino che vengono monitorati da anni, come si può osservare nei grafici in fondo all’articolo. Non solo: «Normalmente a seguito di una variazione del clima alcuni ghiacciai scompaiono ed altri adeguano la propria forma e dimensione alle nuove condizioni climatiche, tendendo ad un bilancio in pareggio. Il fatto che pur con ghiacciai in forte riduzione il bilancio di massa continui ad essere fortemente negativo, non solo a livello alpino ma anche a scala globale, indica che il clima non si sta stabilizzando, anzi. I ghiacciai sono tra gli indicatori più fedeli. Di questo passo rischiamo di perdere gran parte di quelli dell’arco alpino, inclusi quelli sottoposti a misurazione. Secondo le nostre stime fatte nel 2013, il ghiacciaio del Careser dovrebbe sparire completamente attorno al 2060, ponendo così fine ad una lunga e preziosa serie storica di misurazioni».
Non è stato sempre così. Ci sono generazioni che hanno visto i ghiacciai formarsi, con tempistiche che attraversano generazioni. Il massimo storico per l’estensione dei nostri ghiacciai nell’Olocene, il periodo climatico attuale, è stimato intorno al 1850 (per approfondire il clima del passato, vai al box sotto). Per andare così indietro non sono disponibili misure accurate come i bilanci di massa. Ma i dati cosiddetti “proxy”, ovvero degli indicatori.
Tra questi i pollini. Daniela Festi è ricercatrice all’Accademia Austriaca delle Scienze. È palinologa, significa che studia i pollini, nel suo caso quelli del passato per capire il cambiamento climatico e l’impatto dell’uomo sull’ambiente alpino. Va a cercarli in diversi tipi di archivi, tra questi i ghiacciai.
«In inverno nelle alpi i pollini sono praticamente assenti, mentre in primavera ed estate ce ne sono diversi e in abbondanza. Nei ghiacciai profondi troviamo strati privi di pollini - gli inverni, appunto - e quelli dove i pollini dalla stagione di fioritura sono stati conservati – ci spiega Daniela Festi -. Con i carotaggi sull’Ortles siamo scesi fino a 75 metri. Corrispondono a circa 7mila anni. I primi 53 metri di ghiaccio sono risalenti all’inizio del Novecento, il secolo scorso. I restanti 20 metri agli altri 7mila anni».
Il tipo di pollini che viene trovato indica la vegetazione ed il clima del periodo: ad esempio «dagli anni Ottanta in poi arrivano i pollini di Leccio, una pianta mediterranea, il cui polline prima sulle alpi prima non si trovava. Cosí il polline registra gli effetti del riscaldamento globale che stiamo vivendo. Da uno studio sulla carota di ghiaccio dell’Adamello prelevata nel 2016, grazie ai pollini e ad altri proxy cronologici, è emerso che la superficie del ghiacciaio risale a 1995 circa. Significa che nel 2016 il ghiacciaio – il più esteso e profondo di Italia, circa 270 metri - aveva perso così tanta massa che stavamo camminando sul ghiaccio del 1995».