Gli smartphone che abbiamo in tasca, i data center che alimentano Internet, le automobili, i caccia ipersonici e i rover su Marte, tutti condividono un pezzo di tecnologia essenziale per il loro funzionamento: i semiconduttori. L’elenco potrebbe allungarsi e di molto considerando come al mondo si vendono ogni anno più di 1000 miliardi di chip, circa 140 per ogni persona sulla terra. Da qui alla fine del decennio questo numero è stimato raddoppiare, portando il valore globale del settore a 1400 miliardi di dollari annui.
Circa un chip su due di quelli ad oggi prodotti finirà in uno smartphone, un Pc o un server. Ma un’importante fetta di mercato è anche rappresentata da industria e automotive. In particolare, ogni automobile mediamente contiene 1400 semiconduttori che permettono il funzionamento di quasi tutte le principali componenti dal motore e il servosterzo ai dispositivi di sicurezza. La centralità di questi chip per il settore si è evidenziata nel 2021, quando la lora carenza sul mercato ha contribuito a un crollo della produzione automobilistica globale del 26%.
Ad oggi, un nuovo shortage di chip sembra un’ipotesi remota. La recente debolezza di alcuni mercati finali, come quelli dell’elettronica di consumo, ha persino provocato un eccesso di offerta di semiconduttori. Tuttavia, nella seconda parte dell’anno, si prevede una forte ripresa della domanda (con connesse difficoltà di approvvigionamento) di alcuni tipi di chip come quelli necessari per addestrare l'ultima ondata di sistemi di intelligenza artificiale generativa. Non a caso il chipmaker statunitense Nvidia, leader del mercato dei processori GPU usati da servizi come ChatGPT, ha avuto un fatturato trimestrale di oltre il 50% più alto rispetto alle stime degli analisti.
La parola chip racchiude quindi al suo interno un ecosistema quanto mai variegato, da scomporre innanzitutto in base alla diversa funzionalità di ogni semiconduttore. In ciascuno smartphone, ad esempio, troviamo chip logici (come CPU e GPU), che rappresentano il cervello del dispositivo, la sua potenza di calcolo. A questi si affiancano i chip di memoria che immagazzinano le informazioni sul dispositivo. Vista la diffusione mondiale degli smartphone, e la centralità di questi chip nelle tecnologie di intelligenza artificiale e IoT, non sorprende che queste siano le due categorie di semiconduttori più vendute al mondo.
Completano il podio i cosiddetti chip analogici, che ricevono e trasformano le informazioni in base a parametri non binari come la temperatura e la tensione, per permettere il funzionamento di sensori e dei processi di gestione dell'energia. Con una quota dell’8% del mercato troviamo poi i semiconduttori opto, che funzionano tramite l'assorbimento e l'emissione di luce, e sono quindi elemento essenziale per LED, celle solari e laser.
Ulteriore elemento di diversificazione dei chip è rappresentato dal loro stato di avanzamento tecnologico, misurato dalla dimensione di una specifica componente (gate) dei transistor: interruttori elettrici in miniatura che possono attivare o disattivare una corrente.
Negli ultimi 50 anni, l'industria elettronica è stata guidata dalla cosiddetta "Legge di Moore", formulata dal cofondatore di Intel Gordon Moore, secondo cui il numero di transistor incorporati in un chip sarebbe raddoppiato all’incirca ogni due anni. Nell’ultimo anno si è superato il limite dei 100 miliardi di transistor per chip grazie a una miniaturizzazione dei loro gate fino a 3 nanometri (nm, pari a un milionesimo di millimetro), ovvero 25mila volte più piccoli del diametro di un capello umano.
Diverse dimensioni corrispondono a diversi utilizzi. Ad esempio, i chip con gate da 65 nm sono quelli maggiormente utilizzati dall’industria automobilistica in quanto più adatti per caratteristiche tecniche e costi di produzione (18 volte più contenuti rispetto ai chip più avanzati). Gli smartphone top di gamma, ma anche cloud computing, guida autonoma e intelligenza artificiale utilizzano invece chip da 3 o 7 nm che però solo un ristretto numero di aziende e Paesi sono in grado di produrre.
La catena del valore di un semiconduttore è tra le più complesse mai concepite: dalla progettazione alla produzione sono necessari più di 1.000 passaggi attraverso 70 differenti Paesi, che coinvolgono 300 materiali provenienti da 16mila fornitori. Si tratta quindi di una filiera altamente segmentata, in cui pochissime compagnie detengono la leadership di mercato relativamente a specifici processi e tipologie di chip.
La prima fase del processo di produzione di un chip è il design della sua architettura. In questo gli Stati Uniti sono leader indiscussi, specialmente per quanto riguarda i chip logici e analogici. Solo nel settore dei chip di memoria, dove le aziende sudcoreane generano il 59% di tutti i ricavi legati alla progettazione, gli USA non detengono una posizione di primato. La loro quota raggiunge il quasi monopolio per quel che concerne le licenze di proprietà intellettuale e i software EDA (Electronic Design Automation), considerati lo stato dell’arte per automatizzare il processo di progettazione.
Alcune aziende come Intel e Samsung progettano e producono i loro chip. Ma si tratta di un caso isolato: la maggior parte delle compagnie americane (e non) come Qualcomm, Nvidia e AMD si occupano solo della progettazione e commissionano la produzione a fonderie concentrate nell’Est del mondo. Taiwan, Corea del Sud e Cina insieme rappresentano infatti più dell’80% del valore aggiunto di questo segmento del mercato.
Il ruolo di Taiwan diventa ancora più centrale se si considerano i chip con transistor più piccoli di 10 nm: 92% della quota di mercato. Ovvero 9 chip ogni 10 presenti in smartphone, computer e tecnologie all’avanguardia sono prodotti dall’azienda taiwanese TSMC. Pechino fa da spettatore in questo segmento, con una quota che diventa tanto più rilevante più aumenta la dimensione dei transistor sui chip prodotti.
I processi di produzione richiedono poi la realizzazione di wafer di silicio su cui vengono incisi i circuiti integrati, e l’utilizzo di prodotti chimici per modificarne la conduttività elettrica. Queste fasi sono nuovamente dominate dalle aziende asiatiche, tra cui le giapponesi JSR e Shin-Etsu Chemical. Realtà europee come Merck, BASF e Solvay riescono a ritagliarsi un ruolo di primo piano, ma è solo nel segmento dei macchinari per la fabbricazione che l’Europa ha una vera e propria posizione di leadership.
L’azienda olandese ASML è l’unica al mondo in grado di produrre apparecchiature per la litografia a radiazione ultravioletta estrema (EUV). Si tratta di strumenti che utilizzano le lenti della compagnia tedesca Zeiss (l’unico fornitore al mondo) per incidere con una risoluzione elevatissima i wafer di silicio sui quali vengono realizzati i microchip con nodi da 7 nm, 5 nm e 3 nm. Senza ASML un tale livello di miniaturizzazione sarebbe impossibile. Ecco perchè si tratta di un alleato essenziale per gli Stati Uniti nella competizione geopolitica con la Cina sui semiconduttori.
La quota di mercato (sulla base del fatturato) degli Stati Uniti nel settore dei semiconduttori è prevista in forte diminuzione, da circa il 50% nel 2000 al 36% nel 2030. Considerando solo il segmento della produzione, questo declino non è meno netto: nel 1995 gli USA fabbricavano sul loro territorio il 26% di tutti i semiconduttori venduti al mondo. Ora la percentuale è scesa al 12%. Discorso affine vale per Europa e Giappone.
In parallelo, la Cina si sta accaparrando una fetta sempre più consistente di vendite. E le sue mire su Taiwan (il presidente Xi vorrebbe che la sua riunificazione alla Cina continentale avvenisse entro il 2049, anno del centenario della nascita della Repubblica Popolare Cinese) comportano una potenziale vulnerabilità strategica per lo sviluppo tecnologico occidentale (e non solo) che dei chip fabbricati a Taipei non può fare a meno.
Per evitare che l’industria cinese dei semiconduttori prenda il sopravvento sul mercato, la strategia di risposta di USA, Europa e Giappone è duplice. Da un lato si basa su una politica industriale particolarmente attiva volta a incrementare la quota di semiconduttori prodotti in patria. Si possono in questo senso citare i 52 miliardi di dollari di incentivi e sgravi fiscali previsti dal Chips and Science Act americano; fondi che hanno ad esempio convinto TSMC a triplicare da 12 a 40 miliardi di dollari gli investimenti in Arizona, dove punta a produrre chip con nodi da 3 nm entro il 2026.
Il corrispettivo europeo sono i 43 miliardi dell’European Chips Act. Mentre lato giapponese è stato raggiunto un accordo tra governo e TSMC per l’apertura di un nuovo stabilimento della compagnia a Kumamoto, che si affianca alla nuova fabbrica di Samsung annunciata a Yokohama.
Il secondo strumento per contrastare l’ascesa cinese è la politica commerciale. Nell’ottobre 2022, l’amministrazione Biden ha bloccato l’export verso la Cina di chip realizzati con tecnologia americana. A marzo 2023 sono poi state annunciate le cosiddette guardrails provisions, previste dal Chips and Science Act, che vietano alle aziende beneficiarie dei sussidi federali di espandere, per un decennio, la loro capacità di produzione di chip avanzati in Cina di oltre il 5%. Insomma, un vero e proprio aut-aut.
Dal 2019, il governo olandese ha imposto limitazioni per ASML all’esportazione verso la Cina dei suoi macchinari EUV più avanzati. Dal primo settembre, dopo molteplici pressioni da parte di funzionari della Casa Bianca, anche gli EUV più datati saranno inclusi in queste restrizioni. Non si tratta di un caso isolato: Washington sta attuando una vera e propria campagna per arruolare contro Pechino attori chiave nella supply chain dei semiconduttori. Il 31 marzo pure il Giappone ha aderito alla linea americana introducendo limitazioni all’export verso Pechino di 23 tipologie di macchinari per la produzione di chip.
Queste restrizioni si stanno rivelando particolarmente efficaci considerando come, l’anno scorso, le importazioni cinesi di chip sono calate per la prima volta in due decenni. Con un crollo del 25% dei volumi solo a novembre (ovvero subito dopo l’entrata in vigore del ban americano), che si sta ripetendo nel 2023. Trattandosi della prima voce di importazione della Cina, più del petrolio, era inevitabile una sua reazione.
Pechino ha vietato alle sue aziende strategiche di acquistare tecnologia dalla multinazionale americana Micron, che dalla vendita dei suoi chip di memoria (tra cui quelli per gli iPhone) nel mercato cinese traeva l’11% del suo fatturato. Il 4 luglio, la Cina ha poi annunciato restrizioni all'export di gallio e germanio, due minerali centrali nella creazione di alcuni tipi di chip usati negli smartphone e nelle comunicazioni satellitari.
Avendo Pechino il quasi monopolio nella produzione di questi minerali (con una quota del 94% per il gallio e del 60% per il germanio), diventa sempre più prioritario per l’Unione europea (e l’Italia) trovare una propria autonomia strategica nel campo dei semiconduttori.
L’UE punta a raddoppiare la sua quota nel mercato mondiale dei semiconduttori, portandola da meno del 10% di oggi al 20% entro il 2030. Stando alle parole della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, dal 2026 sarà in grado di produrre chip all’avanguardia su larga scala. Obiettivi e dichiarazioni ambiziose che si scontrano con una attuale capacità di progettazione e produzione di semiconduttori piuttosto limitata.
In Europa, solo lo stabilimento di Intel in Irlanda è in grado di produrre chip con nodi sotto i 10 nanometri. E per altro vive un momento negativo caratterizzato da tagli al personale nell’ordine delle migliaia. A dicembre 2021, la compagnia ha annunciato l’intenzione di costruire una nuova fabbrica di microchip di ultima generazione a Magdeburgo. L’avvio dei lavori è stato però rallentato dalle lunghe trattative con il governo tedesco sull’entità dei sussidi alla costruzione: Intel ha alla fine ottenuto 10 miliardi di euro, a fronte di una offerta iniziale di Berlino di 7 miliardi.
Complessivamente gli investimenti totali (pubblici e privati) al 2025 in nuova capacità di produzione di chip in Europa ammontano a 31 miliardi di dollari. Un quarto rispetto agli Stati Uniti e un terzo in confronto a Taiwan. A scoraggiare i principali produttori del settore a investire nell’UE contribuisce la bassa domanda interna europea per i chip sotto i 20 nanometri.
L'attuale espansione della capacità di produzione nell’UE è quindi soprattutto affidata alle principali aziende europee specializzate in chip per applicazioni industriali e per il settore automobilistico: Infineon e STMicroelectronics. La prima, a inizio maggio, ha iniziato i lavori per un nuovo stabilimento da 5 miliardi di euro a Dresda, in Germania.
A giugno, l’italo-francese STMicroelectronics ha concluso un accordo con GlobalFoundries per creare una nuova fonderia, operata congiuntamente, a Crolles, nella Francia meridionale. ST è particolarmente attiva anche sul suolo italiano. In questo senso si può citare la costruzione in corso di una mega fab vicino Milano, dal valore di 3 miliardi di euro al completamento, e di un impianto da 730 milioni di euro, per la produzione di wafer in carburo di silicio, nell’area di Catania.
Proprio l’Etna Valley e la provincia di Monza-Brianza sono due dei maggiori poli dell’industria dei semiconduttori italiana, insieme ad Avezzano, in provincia dell’Aquila, dove opera l’importante fonderia LFoundry (il cui azionista di maggioranza è la cinese Wuxi Xichanweixin Semiconductor). Complessivamente, il settore in Italia conta 1900 imprese che danno lavoro a 36mila addetti.
Quest'anno, il governo presenterà il Piano nazionale sulla microelettronica, che declinerà in chiave italiana gli obiettivi e gli scopi dell’EU Chips Act. Dal successo di queste politiche dipende molto della capacità italiana ed europea di mantenersi al passo con la frontiera tecnologica. Una distanza da essa di pochi milionesimi di millimetro potrebbe essere impossibile da colmare.