30 giugno 2023
“L'Unione europea e la Cina hanno un interesse comune a perseguire relazioni costruttive e stabili”. Così le conclusioni della due giorni di Consiglio europeo riassumono la discussione strategica sulla Cina tenutasi tra i leader dei 27 Stati membri. Ma, a dispetto delle formule diplomatiche, di Cina i Paesi europei stanno discutendo molto (e accesamente) in queste ore e settimane, segnate dal tentativo di definire un approccio comune europeo nei rapporti con il Dragone.
A fine marzo la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha dettato la linea invitando i Paesi membri a ridurre i rischi (il cosiddetto de-risking) nei confronti del gigante asiatico. Ovvero la Cina deve rimanere un partner commerciale dell'UE ma ci sono alcune aree in cui il commercio e gli investimenti di Pechino mettono a rischio la sicurezza europea e nazionale, per cui bisogna difendersi.
Come? Negli ultimi anni il pacchetto di strumenti a disposizione degli Stati membri si sta ampliando e potrebbe accogliere entro la fine dell’anno anche un controllo dell’export e degli investimenti in uscita in una serie di tecnologie avanzate (come il calcolo quantistico, l’intelligenza artificiale e i semiconduttori di ultima generazione). Questo è quanto proposto, a metà giugno, dalla stessa Commissione nella sua Strategia sulla sicurezza economica, in cui la Cina, mai esplicitamente citata, rappresenta l’elefante nella stanza.
Il dibattito è quindi quanto mai attuale. Attraverso una serie di grafiche interattive cerchiamo quindi di capire perché l’Unione europea vuole un de-risking dalla Cina, e quanto sono state finora efficaci le misure introdotte per attuarlo.
La Cina è il terzo mercato principale per le merci provenienti dall’Unione europea e il primo fornitore mondiale del mercato unico. Nel 2022 lo scambio di merci tra UE e Cina ha raggiunto gli 856 miliardi di euro, quasi al pari di quello con gli Stati Uniti. Dieci anni fa era meno della metà. Perché dunque a Bruxelles questa relazione così prolifica per le imprese europee, e in costante crescita, viene considerata un rischio?
La risposta è da ricercarsi nei mancati equilibri di questo progressivo intensificarsi dei rapporti commerciali. Nell’ultimo decennio, le importazioni europee dalla Cina sono cresciute due volte più che le esportazioni verso di essa. E più crescono le importazioni dalla Cina più cresce la dipendenza delle principali economie europee dal Paese.
Il caso italiano è esemplificativo in questo senso. Nel marzo 2019, l’Italia diventava il primo membro del G7 a siglare un accordo con la Cina nell’ambito della Nuova via della seta. Con la firma del relativo memorandum d’intesa, il governo italiano puntava a un aumento dell’export made in Italy verso Pechino. Questo aumento c’è stato, ma di soli 3 miliardi, a fronte di un incremento da 26 miliardi dell’export cinese verso il nostro Paese.
Alla luce di questi numeri, nonostante le pressioni di Pechino, è difficile giustificare un rinnovo del memorandum, una volta giunto a scadenza nel marzo 2024.
La crisi energetica degli scorsi mesi, scatenata dai tagli delle forniture di gas russo, ha infatti insegnato una preziosa lezione: dipendere da un unico fornitore, per lo più non ascrivibile al proprio cerchio di alleanze, può avere serie conseguenze. E da Pechino l’UE dipende per materie prime, alcune tipologie di semiconduttori e tecnologie critiche per la transizione energetica. Basti pensare che il 74% di tutte le batterie importate nell’Unione europea sono di provenienza cinese
Pechino ha già dimostrato di saper far leva sul proprio peso commerciale per difendere i suoi interessi geopolitici. Ne sa qualcosa la Lituania che, avendo autorizzato l’apertura di un ufficio di rappresentanza di Taiwan a Vilnius, è stata punita dalla Cina con un embargo sull’export, così crollato dell’80%.
Come si sta quindi cercando di attenuare la probabilità e l’impatto di simili comportamenti da parte della Cina? Sul fronte delle materie prime si è fatto un primo passo con il Critical Raw Materials Act, la proposta della Commissione, presentata a marzo, che pone obiettivi minimi di estrazione (pari al 10% dei consumi UE) e lavorazione (40% dei consumi) in territorio europeo.
Qualcosa si muove pure sul fronte nazionale con l’incontro del 26 giugno tra i ministri dell’economia e dell’industria di Germania, Francia e Italia per definire le prime scorte comuni di materie prime strategiche.
Lato semiconduttori, a maggio è stato definitivamente approvato l’European Chips Act, che punta a raddoppiare la produzione di chip in Europa, favorendo la concessione di lauti sussidi, come i 10 miliardi di euro che il governo tedesco darà a Intel per la costruzione di un maxi-impianto a Magdeburgo.
Infine, per quanto riguarda le tecnologie abilitanti la transizione verde, è passata in sordina (complice una portata lontana dalle aspettative iniziali) la proposta del 20 giugno della Commissione di un fondo europeo per la sovranità, denominato STEP, con un ammontare di 10 miliardi di euro.
Tutte queste iniziative sono recenti e ancora acerbe. Un loro effetto sull’import dalla Cina, relativo ai primi quattro mesi del 2023, non è quindi ancora visibile. Ma ridurre il peso delle importazioni cinesi è possibile e lo dimostrano gli Stati Uniti che, da prima e con più convinzione dell’Europa, stanno attuando un de-risking da Pechino.
Nel primo quadrimestre del 2023, le importazioni americane dal resto del mondo sono calate del 5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quelle dalla Cina del 26%, portando la loro quota sul totale delle importazioni USA ai livelli più bassi dal 2004
Non è solo al commercio che bisogna guardare nell’analizzare i possibili fattori di rischio provenienti dalla Cina. Gli investimenti sono, se possibile, una componente ancora più sensibile. Tra il 2016 e il 2017 le aziende cinesi hanno investito la cifra record di 85 miliardi di euro in operazioni di M&A nella UE, con un particolare focus sui principali terminal portuali europei.
Sono infatti riconducibili a quegli anni gli acquisti, da parte della azienda statale cinese COSCO, di una partecipazione del 35% nel porto di Rotterdam, del 40% nel porto di Vado Ligure e del 51% (diventata poi del 67%) in quello greco del Pireo che è ora il quinto in Europa per movimentazione merci, dall’ottavo posto che ricopriva pre-proprietà cinese.
Questi investimenti hanno quindi avuto innegabili effetti benefici per alcuni dei soggetti coinvolti. Tuttavia, come riconosciuto dal Parlamento europeo, rappresentano per la Cina una fonte indiretta di leva politica sull’Europa.
Ecco, quindi, che dal 2019 l’UE ha introdotto un framework per rafforzare e coordinare l’azione di controllo europea sugli investimenti in entrata.
Due terzi dei 27 Stati membri sono ora dotati di una legislazione nazionale per bloccare o porre condizioni alle proposte di acquisizioni, da parte di soggetti stranieri, in settori reputati strategici e di interesse nazionale.
L’ultimo caso celebre è la decisione del governo italiano di ridimensionare il ruolo del socio cinese Sinochem nelle attività di Pirelli. Ma negli ultimi due anni, altri 40 investimenti diretti esteri cinesi in Europa sono passati sotto la lente delle autorità nazionali di controllo.
Che complessivamente solo nell’1% dei casi hanno optato per un blocco della transazione. Si tratta quindi di uno strumento per lo più di deterrenza, che complice la pandemia e una regolamentazione cinese più rigida sui flussi in uscita, ha però contribuito a ridurre gli investimenti cinesi nell’UE ai livelli più bassi dal 2013.
Permangono ancora elementi di criticità. Ha fatto per esempio molto discutere la recente decisione del governo tedesco di autorizzare l’acquisto, sempre da parte di COSCO, di una partecipazione del 24,99% nel porto di Amburgo. Si tratta però di un caso isolato.
Pechino sembra infatti aver cambiato strategia tanto che lo scorso anno, per la prima volta, gli investimenti cinesi di tipo greenfield in Europa hanno superato quelli in fusioni e acquisizioni. Ovvero, meno M&A, sempre più politicamente dibattute, e più aperture di fabbriche in Europa.
Diversi anche i settori target. L’interesse cinese verso le infrastrutture europee sembra essere scemato, mentre sta aumentando quello per l’automotive. Più della metà degli investimenti cinesi nell’UE nel 2022 hanno infatti riguardato questo settore. Percentuale che sale al 72% se si considerano solo gli investimenti greenfield.
Non sorprende guardando alle notizie degli ultimi mesi: alle nuove fabbriche di batterie di CATL in costruzione in Ungheria e Germania potrebbe presto far seguito l’arrivo nel Vecchio Continente di stabilimenti di auto elettriche targate BYD.
Si tratta di un campanello di allarme per l’industria automobilistica nel Vecchio Continente? Come correre ai ripari? E in quali altri settori europei l’influenza della Cina è sopra i livelli di guardia? Appuntamento per le risposte alla seconda puntata di questa serie di articoli, presto in uscita.